di Dario Rivolta * – da: NOTIZIEGEOPOLITICHE.NET
Davanti ai fatti di Israele di questi giorni non possiamo che ritrarci inorriditi per la ferocia con cui gli sgherri di Hamas hanno seviziato e ucciso cittadini israeliani che se ne stavano tranquilli a festeggiare a suon di musica. Il modo in cui si è svolta l’azione non lascia adito a dubbi: il piano era stato progettato e preparato con cura ed era anche già stato deciso cosa fare nei confronti di tutti quegli inermi giovani. Non ci sono giustificazioni di alcun genere per quanto è accaduto e anche le possibili spiegazioni politiche assumono poco senso.
Ci sono oggi quelli che spiegano quell’odio manifesto con le pessime condizioni di vita cui sono sottoposti i palestinesi da parte dei governi israeliani, ma cercare di attribuire solo ad Israele le cause dell’attuale situazione in quella porzione di mondo è un esercizio fuorviante, e probabilmente, fatto in malafede.
È fuor di dubbio che i vari governi che si sono succeduti a Tel Aviv abbiano delle grandi responsabilità per non aver mai consentito una qualche soluzione al problema della coesistenza con i palestinesi. Ed è altrettanto evidente che la continua apertura di nuovi insediamenti abusivi in Cisgiordania (legalizzati a posteriori da governi compiacenti) con relativo sgombero dei precedenti occupanti palestinesi non poteva che essere di insormontabile ostacolo ad ogni possibile futura negoziazione. Perfino quei palestinesi che vivono dentro i confini ufficiali di Israele, pur mantenendosi in condizioni di vita più che accettabili e migliori di molti arabi nati e cresciuti in altri Paesi medio-orientali, non potevano considerarsi appagati vista la loro condizione di cittadini di serie B.
Tuttavia anche da parte dei vari rappresentanti del popolo palestinese si è fatto di tutto, fin dall’inizio, per impedire che un qualsiasi accordo potesse essere raggiunto. La cosa non riguarda solo Hamas, sicuramente tra i peggiori protagonisti del dramma Medio Orientale. Anche l’Olp di Abu Mazen, e prima di lui di Arafat, ha sempre dichiarato di voler trovare una soluzione comune, ma quando una soluzione sembrava raggiungibile hanno sempre fatto marcia indietro, smentendo perfino ciò che avevano concordato. Di là da alcune dichiarazioni apparentemente concilianti espresse in inglese per i pubblici occidentali, quando i vari capi si esprimevano in arabo le loro affermazioni erano piene di insulti e inviti all’odio contro “gli occupanti ebrei”. Ne sono stato testimone durante una visita in una scuola per ragazzi palestinesi gestita dall’Onu (sic!) dove ho notato cartelli sui muri delle aule che invitavano quelle nuove generazioni ad odiare tutti gli ebrei, a prepararsi per cacciarli definitivamente da quella che consideravano la loro terra.
Già lo scorso anno, in un articolo per Linkiesta, avevo fatto notare che la leadership dell’Olp aveva procrastinato le elezioni temendo una vittoria di Hamas anche in Cisgiordania, e gli stessi servizi israeliani avevano messo in guardia dal rischio di una pioggia di missili nel caso non si fossero tenute le elezioni.
Come non bastasse, nel documento istitutivo di Hamas non c’è mai stato spazio per una qualche soluzione (due Stati o altro) che non fosse la “sparizione di Israele” dalla faccia della terra.
Cercare di identificare chi tra i due, israeliani o palestinesi, abbia un po’ più di ragione o chi abbia certamente torto è una sfida inutile: entrambi hanno le loro ragioni ed entrambi sono nel torto. Pure se il recente massacro non avesse mai avuto luogo, il loro reciproco odio era ed è tale che provare a ricondurli a un ragionamento di semplice buon senso o di accettabile compromesso si è dimostrata una battaglia impossibile.
Sempre su Linkiesta, sottolineando la realtà che non vede l’interesse ne’ degli uni ne’ degli altri ad accordi di pace a cominciare dalla soluzione dei “due Stati”, indicavo anche l’impercorribilità della soluzione di un unico Stato israeliano che includesse tutti i Territori e la popolazione ivi residente come cittadini con uguali diritti, indipendentemente dalla loro etnia o religione: se i palestinesi, in base al “diritto al ritorno”, si trasferissero in Israele, cambierebbero sensibilmente il rapporto numerico tra le due etnie facendo diventare maggioranza quella araba sopra quella ebraica, con le ovvie conseguenze politiche. L’altolà a tale ipotesi è arrivata anche dal governo Netanyahu, il quale nel 2018 ha inserito nella “Legge Fondamentale” che “Israele è uno stato ebraico”, cioè non tanto della nazione israeliana, bensì del “popolo ebraico”. I palestinesi (ma non solo) verrebbero quindi implicitamente ad essere “ospiti”, e non accetterebbero ciò che viene percepita come una “discriminazione” o perfino novello “apartheid”.
Tutto ciò vuol dunque dire che noi dovremmo starcene lontani e non parteggiare per l’uno o l’altro? Sarebbe bello, ma non utile né per loro né per noi. Se un nostro caro amico o un nostro consanguineo, magari pur palesemente in torto, si trovasse coinvolto in una rissa e noi capissimo che ogni tentativo di placare gli animi si rivelasse impercorribile, è ovvio che non potremmo che intervenire in difesa di chi ci è più prossimo. Nel caso del conflitto di cui parliamo mi sembra evidente che, pur con tanta simpatia per i poveri palestinesi (ma non verso i terroristi di Hamas), il nostro “prossimo” è certamente Israele. È con i suoi abitanti che condividiamo maggiori basi culturali, è con loro che ci sentiamo più vicini, è il loro regime democratico quello che più ci assomiglia (escludendo, tuttavia, i loro fanatici religiosi, gente con cui ogni vicinanza è impossibile e che per il loro comportamento intollerante e settario suscita piuttosto il nostro ribrezzo). Se mai qualcuno ancora avesse dei dubbi, si guardi le immagini di cosa i criminali di Hamas hanno freddamente, e consapevolmente, fatto a bambini, donne e giovani di tutte le età appena superato il confine.
* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.
LO STATUS QUO CONVIENE PALESTINESI E ISRAELIANI NON TROVERANNO MAI UN ACCORDO DEFINITIVO PER LA PACE
Dario Rivolta da: LINKIESTA 18/05/2021
Le soluzioni di cui si parla, seppur per motivi diversi, oggi sono irrealizzabili: né due Stati né un solo Stato che comprenda tutti sembrano percorsi possibili
Il riaprirsi del conflitto tra Israeliani e palestinesi non è la conseguenza dello sfratto di una famiglia palestinese da una casa in Gerusalemme est. Quello è stato solo l’ultimo pretesto. Lasciamo a parte il fatto che quella casa era da anni occupata abusivamente, senza titolo alcuno di proprietà o pagamento di affitto, e che la Corte Suprema doveva ancora emettere una sentenza definitiva sulla questione, il vero motivo della recrudescenza del conflitto va ricercato in una questione tutta interna ai gruppi palestinesi. In particolare, tutto nasce con la decisione di Abu Mazen di rinviare a data da destinarsi le elezioni legislative che avrebbero dovuto tenersi il 22 maggio prossimo.
Ufficialmente la ragione del rinvio, così come dichiarato da Ramallah, era stata l’impossibilità, causa l’opposizione di Israele, di far votare anche i palestinesi che ancora abitano Gerusalemme Est ma Tel Aviv ha smentito di averlo mai proibito. Ora la questione è diventata del tutto insignificante. È dal 2014 che i palestinesi non votano i loro rappresentanti presso la loro Autorità Nazionale (ANP) e ogni volta che lo si doveva fare sono stati trovati nuovi pretesti. Anche questa volta, come in precedenza la vera ragione è la divisione interna al gruppo di Al Fatah e la conseguente probabilità che Hamas possa ottenere una vittoria elettorale schiacciante. Senza contare che per luglio sarebbero previste le elezioni presidenziali e le previsioni danno una sconfitta pressoché sicura per Abu Mazen.
Anche Giordania ed Egitto non gradirebbero una vittoria di Hamas e sembra che rappresentanti dei loro Servizi abbiano contribuito alla decisione del rinvio. Persino a Tel Aviv l’idea che Hamas conquistasse la leadership in Cisgiordania (ora controllata da Al Fatah con cui è più facile almeno teoricamente dialogare) oltre che nella Striscia di Gaza non era certo benvenuta ma i Servizi israeliani avevano già lanciato un allarme: se non si terranno queste elezioni, è molto probabile che Hamas reagisca con il lancio di nuovi missili da Gaza verso il territorio israeliano. Cosa che è puntualmente avvenuta.
La vera ragione che impedisce ogni realistica soluzione del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi è che nessuna delle due parti ha interesse ad arrivare a una sistemazione definitiva che riesca ad accontentare entrambi. L’odio che tutti invitano a seppellire è ormai troppo radicato e gli obiettivi delle due parti sono totalmente inconciliabili. Gli integralisti religiosi ebraici non hanno mai avuto, né hanno, alcuna volontà di accettare una pacifica convivenza con i palestinesi, abitino essi all’interno dell’attuale Stato di Israele o nei Territori. Costoro, interpretando alla lettera la Sacra Scrittura, sono profondamente convinti che tutta la regione che fece parte del Protettorato inglese spetti loro per diritto divino e che i palestinesi che la abitano siano degli abusivi.
Ancora peggiore si prospetta la situazione se guardiamo nell’altro campo, quello palestinese. I politici stranieri che invitano alla pace ed al rispetto reciproco probabilmente non sono mai stati sul posto o, se lo hanno fatto, si sono limitati agli incontri e alle chiacchiere ufficiali. Non va dimenticato che Arafat era uso dare due diverse narrazioni se parlava per gli occidentali o se si rivolgeva al mondo arabo. Nel primo caso si presentava sempre come disponibile al dialogo e si limitava ad accusare gli israeliani di non voler rispettare gli accordi raggiunti.
Quando parlava in arabo, invece, riempiva il suo eloquio di insulti irriferibili verso la controparte. Alcuni anni orsono ho potuto visitare Israele, i Territori e anche Gaza e la cosa che più mi colpì fu quando, proprio a Gaza, potei visitare una scuola finanziata e gestita da un’organizzazione dell’ONU il cui direttore, se non ricordo male, era un norvegese. Le pareti di tutte le aule portavano dei manifesti, alcuni a stampa altri scritti manualmente dagli studenti, che più o meno recitavano così: «Odio gli ebrei perché hanno rubato la mia terra», «Odio gli inglesi perché hanno dato la terra che era mia agli occupanti ebrei» e via di questo passo. Non ricordo esattamente se fu all’interno di un’aula o in un corridoio che vidi una cartina che raffigurava tutta la regione. Ebbene, in quello spazio che veniva designato come “Palestina” non c’era alcun accenno all’esistenza di Israele e nemmeno ai confini certificati dalle Nazioni Unite.
Interrogai il direttore e la sua risposta fu che si trattasse di una cartina “fisica” e non “politica” e per questo non veniva menzionato Israele. La risposta era, evidentemente, falsa e ipocrita poiché tutti gli Stati confinanti con quello che arbitrariamente veniva indicato solo come “Palestina” erano identificati con i loro nomi: Egitto, Libano, Giordania, Siria e i loro confini erano ben evidenziati. Come si può pensare di pretendere che cessi l’odio se perfino in una scuola gestita e finanziata dall’ONU si insegna proprio a odiare gli israeliani fin dalla giovine età? È malafede o solo ipocrisia?
D’altra parte, Hamas, che si dichiara “branca” dei Fratelli Musulmani, ha sempre negato ogni soluzione pacifica e nel suo proprio Statuto, all’art. 13 scrive esplicitamente: “Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di Resistenza Islamico. In verità, cedere qualunque parte della Palestina equivale a cedere una parte della religione…” e l’obiettivo dichiarato è la sparizione di Israele come Stato.
Durante la mia visita assistetti anche a cosa significa il lancio di missili che piombano a sorpresa su case ed edifici pubblici senza alcun preavviso. Stavo ad Ashdod, in territorio israeliano poco lontano dal confine con Gaza, e gli abitanti mi raccontavano che ogni giorno arrivavano quattro o cinque razzi, fortunatamente dotati di una ridotta (allora, oggi è diverso) capacità di procurare molti danni. C’era, e c’è, da stupirsi per la reazione dell’aviazione israeliana?
L’equivoco di fondo sta nella soluzione ufficiale proposta dalla Comunità internazionale: Due popoli – Due Stati. Purtroppo, anche se questa ipotesi sembrerebbe accontentare tutti, nessuno la vuole davvero ed è diventata totalmente impraticabile. Già sette anni fa John Kerry, allora Segretario di Stato americano, aveva avvertito che se fossero passati altri due anni senza realizzarla, quella possibilità sarebbe diventata impraticabile. Nel 2016 la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU chiedeva di “salvare la soluzione dei due Stati” e imponeva la fine immediata di nuovi insediamenti israeliani nei Territori.
Ciò nonostante, i coloni ebrei che vivono oggi fuori dai confini ufficiali dello Stato sono tra 500.000 e 700.000 ed è impossibile immaginare un futuro Stato palestinese che accetti di avere quegli insediamenti al proprio interno. Al contrario, se essi fossero considerati parte integrante di Israele, la nuova Palestina diventerebbe un mosaico ingestibile e senza collegamenti diretti tra una parte e l’altra. Occorre avere il coraggio di ammetterlo: pensare a due Stati autonomi in quell’aerea è un’idea ormai tramontata. La comunità internazionale continua a fingere di considerarla una soluzione fattibile, ma chi affronta il problema con realismo sa che non si realizzerà mai. Non lo vuole la maggior parte dei politici israeliani e non lo vogliono né Hamas né la sempre più debole ANP.
Che fare dunque? Anche le uniche soluzioni ipotizzabili oggi sono ugualmente, se pur per motivi diversi, irrealizzabili.
Una consisterebbe nel congiungere i territori attualmente abitati dalla stragrande maggioranza dei palestinesi con la Giordania e favorirvi il trasferimento di tutti i palestinesi che lo desiderano. Questa ipotesi è oggettivamente irrealistica e il primo a rifiutarla sarebbe il Regno hascemita di Amman. Già oggi il Regno fatica a tenere insieme il gran numero di palestinesi già presenti in Giordania (il 45% della popolazione) con l’etnia araba locale e nemmeno il matrimonio del re con una giovane e bella palestinese, Ranja, è stato sufficiente per superare tutte le contrapposizioni. Il conglobare all’interno della Giordania un grande numero di nuovi palestinesi, metterebbe sicuramente a rischio la tenuta della monarchia con le conseguenti nuove forme di instabilità regionale.
La seconda soluzione sarebbe quella di un unico Stato israeliano che includesse tutti i Territori e la popolazione ivi residente come cittadini con uguali diritti, indipendentemente dalla loro etnia o religione. A questa ipotesi si contrappongono due ostacoli insormontabili. Il primo è la pretesa palestinese del cosiddetto “diritto al ritorno”, in base al quale tutti i profughi palestinesi e i loro discendenti attualmente presenti in Libano, in Giordania e in Egitto, potrebbero tornare a vivere nella zona d’origine loro o dei loro avi. Ciò causerebbe un totale cambiamento nel rapporto numerico tra le due etnie facendo diventare maggioranza quella araba sopra quella ebraica. Qualcuno immagina che sia una proposta accettabile da parte di un qualunque ebreo israeliano che emigrò in Israele proprio cercando una propria “Patria”?
Il secondo grande ostacolo è nel provvedimento (incluso nella cosiddetta “Legge Fondamentale”, essendo Israele priva di Costituzione) fatto approvare nel 2018 da Netanyahu che statuisce essere Israele uno stato “ebraico”, non tanto della nazione israeliana bensì del “popolo ebraico”. Nella legge non si cita il fatto religioso come discriminante ma resta evidente che un cittadino che non sia etnicamente ebreo, pur restando cittadino, non è niente più che un “ospite”. Rispettato magari e soggetto di diritti, ma pur sempre “ospite”. Sarebbero molti i palestinesi disponibili ad accettare quella che qualcuno definisce già una “discriminazione” o perfino novello “apartheid”?
Come si può vedere, almeno sul breve e medio termine, la situazione appare senza via di sbocco: né due Stati né un solo Stato che comprenda tutti sembrano praticabili.
Tutti i politici avveduti lo sanno bene ma ammetterlo significherebbe anche accettare l’idea che lo scontro, seppur a fasi intermittenti, continuerà senza fine. Lo hanno ben capito gli Stati arabi del Golfo che hanno riaperto le relazioni ufficiali con Tel Aviv ed era chiaro anche a Trump quando decise che l’Ambasciata americana dovesse trasferirsi a Gerusalemme.
Ovviamente, tutti auspichiamo che il conflitto attualmente in atto si fermi, che Hamas non lanci più altri missili e che Israele non reagisca, che non ci siano più morti e distruzioni ma, se non vogliamo continuare a raccontarci delle favole, dobbiamo sopportare l’idea che lo status quo (si spera più pacifico) continuerà ancora a lungo.