Con il santo Natale celebrato da papa Francesco si può dire per l’Italietta odierna concluso il 2023, alberi addobbati miseramente – un Natale magro, come un venerdì santo – e città illuminate da lumini opachi, percorse da suoni ottusi, vuote di gente e di relazioni accattivanti in ossequio all’esorbitante debito pubblico, ai rigori assurdi della UE, agli echi degli orrori di due guerre inutili, ma tragiche, alle porte dell’ormai frusta Europa, rappezzata lisa e sdrucita, macchiata e rammendata come un sacco di Burri senza le recondite armonie sue richiamanti immaginificamente Piero della Francesca, Luca Pacioli e la comune nascita in Borgo Sansepolcro. Uno scenario povero come le tasche della maggioranza dei cittadini che stenta a portare a buon fine il mese, mentre il caro vita esonda inarrestabile, il libero mercato, ch’è globale, punisce ogni settore produttivo e no con penalizzazioni abnormi.
La burocrazia di stato appesantisce i costi dei servizi pubblici vieppiù inefficienti, giustizia e sanità crollano prive di ogni utile sostegno, peggio ancora accade all’economia. Eppure le mistificazioni e i reiterati silenzi della stampa nazionale e più in generale d’ogni informazione al riguardo, gli allarmismi subdoli su una ritornante ansia da pandemia covid, rispondenti a una strategia farlocca la sua parte e ancor peggio gestita a livello globale e più ancora glocale e ora in odore d’anacronistico regalo della Befana, soffiano come velenose e occulte nubi tossiche, come acidi venti caldi in cui l’afa si somma alla sabbia scottante e arida o come velenosi venti gelidi che portano il grande inverno, ma senza respiro, senza vita. Ed è la prima volta, dopo secoli, anche amari. Che sta accadendo? Il vuoto, semplicemente, soprattutto dentro ognuno di noi.
Ti senti escluso e accantonato, prossimo alla discarica che poi è lì, proprio dove stai adesso, ma non sempre te ne accorgi. Sei parte, ormai, governo in testa, di quella “umanità superflua” di cui argomentava Hannah Arendt, una filosofa ebrea-tedesca allieva di Heidegger americanizzata dopo i fasti della seconda guerra mondiale, una guerra nazifascista se vogliamo stabilirne l’accensione, ma di cui si dovrebbero dire le molte complicità, insomma un’altra storia.
Incredibilmente le macerie di quella guerra, i connessi orrori e le ferite e i danni enormi e le irrevocabili perdite, i dolorosissimi lutti, rimosse nel tempo della “ricostruzione” (dominata come sempre da avidità inenarrabili), sono riapparse, ci stanno addosso. Sono parte del nostro presente storico. Questo recita addolorato il Natale del 2023. La notte dell’Avvento che quand’ero milanese trascorrevo affascinato in un monastero benedettino ricostruito dopo i bombardamenti, in compagnia d’un manipolo di suore meravigliosamente mistiche e canore, ma in procinto di sfratto al servizio del business urbanistico-immobiliare che la zona, un tiro d’arco da San Babila, è appetibilissima, l’ho invece passata, questa volta, in solitudine rimuginando il malessere generale.
Ruminavo malessere e malumore e intanto leggevo in ordine sparso vecchi scritti altrui, giusto per confrontarmi con qualcuno più infelice di me, con un passato più disgraziato di questo presente. Ho pescato, scorrendo un’agenda su cui ho vergato tempo addietro alcuni titoli d’una collanina (pel formato) in blu di Sellerio editore di Palermo – scritto con orgoglio e consapevolezza: “Sellerio editore Palermo” – una rosa di proposte (di cui, forse, racconterò in altra occasione) e tra queste, pescando a caso, ecco la mia lettura natalizia: L’anno del giardiniere, di Karel Capek (2008). A un certo punto spiega Capek, trascrivo: “Il terreno si apre, ma ancora non produce […] lo si può considerare così com’è: un terreno spoglio e in attesa”. Come l’Italia di questo dicembre, osservo.
Bisognerebbe vangare, lavorarci sodo, imitando il giardiniere allorquando “esplode in lui la bramosia di migliorarlo in qualche modo”. Ma chi oggi tra coloro i quali dicono di avere a cuore le sorti del Paese, dello Stato, degli italiani e della nuova società aperta (per dirla popperianamente) è giardiniere? Il fatto è che “dovresti avere almeno una piccola aiuola – trascrivo da un’altra pagina aperta a caso, sempre – per conoscere quello che calpesti”. Ebbene “Conosceresti il terreno acido, fangoso, freddo, pietroso e sporco; riconosceresti il terriccio areato come un pampepato, tiepido, leggero e buono come il pane, e diresti che è bello”. In ogni caso dovrai lavorarci su, faticare assai per farlo diventare “terreno della vita”.
Mi son detto, era Natale, ecco questa è la ragione di tutto e può darsi come dono collettivo, come viatico verso un nuovo anno, il 2024. ma era un sogno di una notte d’inverno? Viene voglia di tornare a esplorare il giardino con le le ellebore in fiore, misurare il più alto cedro che può raggiungere i cento metri d’altezza, dicono; viene l’ansia di scoprire cosa si cela sottoterra, magari esplorando “un centenario boschetto di betulle, in cui danzerebbero le ninfe”. Chissà. È risaputo: “il tempo porta le rose” (proverbio ceco), ma anche le querce; castagni e noci chiudono la stagione fruttificando e siepi di sempreverdi si contendono lo spazio ospitando randagi, volatili, insetti, il mondo intero. “Noi giardinieri – scrive verso la fine Capek, anzi, in chiusura – viviamo, in un certo senso, nel futuro […] Il giusto, il meglio è davanti a noi. Ogni anno in più aggiunge crescita e bellezza. Grazie a Dio, presto avremo un anno in più!”.
Chi era costui? Nato a Malé Svatonovice nel 1890, morto a Praga nel 1938, Karel Capek ha pubblicato per primo il termine “robot”, immaginato una pandemia per trattare l’ascesa di una dittatura militare, La malattia bianca. Ha scritto racconti, prose di viaggio, romanzi e drammi e lavorato molto per il teatro: messe in scena di pregio a cui collaborava il fratello Josef, pittore, morto nel campo di concentramento di Bergen-Belsen.
Rolando Bellini