(all’insegna della formazione terziaria od universitaria, in terra insubrica).
La Scuola: questa parola implica, nell’immaginario collettivo, una sequela di scenari, felicitanti e, all’opposto, infelicitanti a cominciare dall’incubo della maturità (d’ogni ordine e grado) ch’è pur sempre la prova più temuta e agognata di un’intera esistenza studentesca, l’ultimo e più alto ostacolo superato il quale, volendo, è possibile accedere a ciò che segue. Vale a dire alle avventure terziarie od universitarie, per chi approda al mondo universitario, altrimenti lavorative per tutti gli altri. Ed ecco che, con l’implicazione terziaria che dovrebb’essere un autentico salto di qualità, si compie un paradosso.
Piuttosto che una crescita salvifica si affermano, in progress, altri e più terribili nodi e così i problemi, le criticità si moltiplicano. Dunque è lecito chiedersi le ragioni di ciò. Fermo restando che in altri scenari, europei per esempio, la formazione universitaria assolve a un compito delicato in grado da un lato di fungere da collante per la società civile e dall’altro di fungere da motore collettivo a favore d’una crescita produttiva e socio-culturale che, certo, non manca d’incidere positivamente sulla qualità della vita.
Ma l’università italiana – in ciò specchio della situazione politica oggidiana – soffre a causa d’una molteplicità di inadempienze, di insolvenze che le negano la competitività e attrattività necessarie, di fragilità inspiegabili e ingiustificate, di paradossalità clamorose che negano questi obiettivi; paradossalità quali lo scollamento tra formazione ed educazione, tra sapere e non sapere, tra vero e falso. Per uno scopo preciso: promuovere una generazione di “Yes man”, di perfetti cortigiani (assai poco affini al modello di Baldassar Castiglione o ai ritrattati dall’occhio rapace e la mano docile-avida di Tiziano Vecellio; ben lontani dalla sublime espressione timida-erotica di talune ritrattate da Leonardo, esplicitanti una privata passione e un’impudica intelligenza; decisamente lontani dal principe eroico-tragico machiavellico).
Eppure, io credo che sussista ancora, nei riguardi dell’università, la possibilità di un riscatto, attualizzando il dire post-illuminista di Jean Nicolas Louis Durand: dal momento che in essa è primaria “l’utilità pubblica e privata, il benessere ed il mantenimento degli individui e della società”.
Acquista allora rilevanza l’esempio di alcune poche e isolate iniziative di segno contrario rispetto alla deriva oggidiana imperante nell’ambito terziario italiano in cui, per non fare che un unico esempio, le Accademie di belle arti restano immerse in un guado paludoso che impedisce loro di raggiungere pienamente la riva universitaria a cui dovrebbero essere vincolate, su richiesta europea. Poche iniziative incardinate sulla terra insubrica, ma degne, tutte quante, di nota nella misura in cui corrispondono – arginando così la caduta apocalittica generale – in termini davvero propositivi alle parole di Durand. Il primo esempio dell’ancor viva e presente implicazione durandiana è dato, per quanto riguarda la terra insubrica, da più di un’iniziativa terziaria che vede protagonista Varese. A muovere dalla stipula di un accordo formativo coinvolgente lo C.S.E.Di.A.F.U. (acronimo di Confederazione Superiore Enti di Alta Formazione Universitaria), per iniziativa del suo direttore, Antonio Simonetto, di cui abbiamo già pubblicato un ampio resoconto, che riproponiamo in forza della sua attualità. Un secondo e ancor più durandiano riferimento (e dunque un secondo più incisivo-provocatorio esempio) è dato dal contributo che sta offrendo all’Università dell’Insubria un filosofo e cattedratico d’essa, Fabio Minazzi, il quale lasciandosi alle spalle una proficua e lunga esperienza d’insegnamento impartito dalla cattedra di filosofia teoretica e filosofia della scienza presso l’Università degli Studi di Lecce, è traghettato all’Insubria – la cui sede accademica è, ricordiamolo, a Varese e Como – portandosi dietro innanzi tutto un Festival di Giovani Pensatori che sta coinvolgendo le Scuole del territorio e centinaia di ragazzi e poi una rivista semestrale di filosofia e cultura, “Il Protagora”, fondata a Lecce nel 1959 da Bruno Widmar, rifondata da Minazzi e ora attiva in Lombardia e che, sotto la sua direzione, va pubblicando tra l’altro alcuni preziosi inediti emergenti dagli archivi acquisiti da un altro impegnativo progetto culturale di Minazzi.
Mi riferisco alla costituzione di un Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti che è insè un’eccellenza della stessa Università dell’Insubria; Un centro che in pochi anni ha pubblicato oltre settanta saggi monografici e dove, tra le altre varie iniziative, si è svolto, colmando una lacuna inspiegabile, un convegno dedicato alla figura e all’opera del promotore d’un epico simposio filosofico svoltosi a Milano, nel 1926, che fu interrotto proditoriamente dall’allora Rettore e Sindaco di Milano prof. Luigi Mangiagalli. Un convegno filosofico inspiegabilmente archiviato-dimenticato e di cui ora il Centro ha pubblicato, evidenziamolo: per la prima volta, gli Atti nel 2016. Si badi che l’attuale simposio titolava,emblematicamente, Piero Martinetti: l’impegno della ragione nel mondo (Varese 26-.27 ottobre 2016). In quest’occasione Minazzi ha coinvolto una giovane artista per concepire una lapide memoriale su cui incidere i dodici nomi dei professori universitari che, unitamente a Martinetti, rifiutarono di giurare fedeltà al regime (un’idea di Giovanni Gentile), perdendo il posto di lavoro.
In occasione del convegno a lui dedicato, dunque, è stata scoperta nell’aula magna o “granda” dell’Istituto Cattaneo, ch’è parte del campus insubrico, una lapide concepita da Erica Tamborini in cui, a suggello dei dodici tra cui è naturalmente il Martinetti, e i cui nomi son stati redatti secondo un particolare ductus e ordinamento visivo o impaginazione, appare un ludo geometrico elegantissimo. Una figura geometrica che richiama simbolicamente quest’epico rifiuto e la sua stessa valenza etica, morale, estetica (altro ancora, rivelato dall’autrice in un suo scritto, rivelato agli occhi dei matematici dall’identità di questa stessa figura di lontana matrice euclidea), poiché d’una bellezza esclamativa. Per volontà dello stesso Minazzi, inoltre, l’Università dell’Insubria ha varato, in linea con questi orientamenti, un nuovo corso di laurea in storia! Ne parlerà sul nostro giornale elettronico lo stesso professor Fabio Minazzi. Limitiamoci pertanto alla nuda segnalazione se non altro per ribadire l’impegno poliedrico del prof e la ricaduta territoriale d’esso; una ricaduta che travalica l’ambito meramente accademico venendo a coinvolgere e fecondare il territorio e le sue realtà, le sue risorse umane più fresche e propositive, i giovani.
Meglio ancora: questo nuovo orientamento formativo in storia dell’Università dell’Insubria provoca, in ambito terziario, un urlo lacerante contro la stessa emarginazione delle materie umanistiche e in particolare contro la scandalosa dissipazione oggidiana d’ogni memoria e lascito storico.
Anche per questo e anzi soprattutto per questo la lapide poc’anzi ricordata, realizzata dalla giovane artista Erica Tamborini, che ha nobilitato l’evento memoriale ammantandolo d’esteticità, di un’aura artistica con al seguito implicazioni etiche e morali, assume valenza straordinaria. L’invito rivolto a quest’artista, del resto, è stato motivato da parte del filosofo dalla sua stessa concezione del fare arte, dalla poetica di lei che fa dell’arte relazionale (una delle irriducibili etichette dell’arte contemporanea) un avvenimento inaspettato. Com’è stato comprovato da un evento performativo-educativo esso pure riverberante di storicità nella sua novità scottante che Erica ha realizzato, successivamente, presso Palazzo Cusani, sede del Comando Militare della Regione Lombardia, in compagnia d’uno stallone e di dieci fotografi che ne raccoglievano per immagini l’azione; una performance consistente in un semplice (apparentemente semplice) attraversamento del Cortile d’onore del Palazzo; un evento, L’artista, il cavallo e i suoi fotografi (30 agosto 2018), su cui abbiamo pubblicato già una recensione che riproponiamo assai volentieri poiché anch’esso di indubbia e costante attualità.
Un evento che è parte d’una trilogia in cui si rinnova un accadimento a suo modo pungente: l’urto rivelatore di sguardi incrociati rivolti infine, provocatoriamente, agli occhi indiscreti del pubblico; una trilogia realizzata presso la sede d’ una eccellenza sovranazionale, la Biblioteca Nazionale Braidense (una delle presenze eccezionali contenute nel Palazzo di Brera per eredità teresiana, alias illuminista). Una trilogia a cura di Erica Tamborini di cui, a breve, – probabilmente attorno al 15 dicembre, ma la data dell’inaugurazione non è stata ancora pubblicata – si svolgerà l’ultimo atto, sempre a cura di Erica che ne è anche la protagonista, dal titolo La performance, i fotografi, un prendere posto delle immagini di forme concrete.
Perché sto ragionando in quest’editoriale di questi fatti? Quali criticità e quali propositività ne emergono? Una prima risposta può venire dalle parole di un filosofo francese, un altro filosofo: anche questo è, a mio avviso, un segnale in sé parlante. Il riferimento è a un saggio, del 2009, di Alain Badiou, Eloge de l’amour. L’idea di amore derivante da una concezione platonica può declinarsi, secondo questo filosofo francese, in una “procedura di verità”, ossia un’esperienza nel corso della quale viene costruito un certo tipo di verità. L’amore è, per questo pensatore, la “scena del Due” (un superamento del paradigma barthesiano che deve pur qualcosa a Bachelard e Bataille, e sodali, includendo dunque il Surrealismo a cui si riferisce sovente Erica Tamborini). Nella scena del Due che tanto si confà non solo al nuovo insegnamento universitario voluto da Minazzi, ma anche al fare arte di Tamborini, sta una indelebile differenza che fa evento rispetto all’ordinarietà corriva vissuta in solitaria contemplazione e competizione, sta pure l’eroismo amoroso che supera una tale conflittualità perenne, irrisolvibile: ciò che separa e distingue il Due.
Riconfermante il fatto, a suo modo stupefacente, che nella scena del Due si ha una conflittualità propositiva in qualche modo sublime nella misura in cui essa va a costituire una peculiare esperienza del mondo, “crea a suo modo una verità nuova sulla differenza”, dice Badiou. Che è poi ciò che interessa l’arte se non altro nell’accezione proposta da Erica Tamborini che può darsi anche come veicolo “comunicativo” tanto raffinato e rivoluzionario quanto efficace e perciò, a ben vedere, chiamante in causa il nostro orizzonte privilegiato in più modi, per più motivate ragioni: vale a dire il territorio insubrico avido di arricchimenti e di sfide sfidanti. Istigando, attraverso una tale dialettica del Due così attivata in ambito artistico, a “saper vedere” (per richiamare la splendida definizione del 1932 di Matteo Marangoni) e dunque alla ribellione nei confronti d’ogni imposta cecità e alla lotta per una nuova affermazione di verità e dunque di libertà, fondamento del fare arte. Il mondo può essere esperito, è il gergo del filosofo, il mondo può essere incontrato ed esperito in condivisione, unione, scontro duale.
È anche il fare arte dell’artista. Entrambi rivolti all’affermazione dell’amore secondo una declinazione agostiniana. “Ed è per questo motivo – insiste Badiou – che amiamo l’amore, come dice sant’Agostino, perché amiamo amare, ma amiamo anche che gli altri amino. Semplicemente perché amiamo la verità, cosa che costituisce il senso ultimo della filosofia”. Ho pescato –non per caso, si badi – questo riferimento intrigante tra i “materiali” messi in gioco nell’ultimo e attuale lavoro di Erica Tamborini che al momento s’intitolo Profili: un lavoro artistico ancora inedito e anzi in fieri o un work in progress, per dirla in inglese, che nell’imprimere poesia impone filosofia e che s’invera nell’amore di verità che in lei è verità di bellezza.
Quella stessa bellezza che, a conti fatti, deve fecondare con rinnovato slancio le terre insubriche, nutrendo di sé un territorio e i suoi abitanti per affermare un bene comune, una crescita collettiva. Il che implica pure un’istanza politica. Cosicché è chiamata alla sbarra un’altra novità, ancora una volta insubrica. Nel Comune di Cinisello Balsamo è stata inaugurata una Scuola di Politica Etica, fortemente voluta dal presidente dello C.S.E.Di.A.F.U., l’ingegnere Andrea Badano. La prima ed unica Scuola di Politica Etica italiana, le cui parole chiave sono “sapere, capire, agire”; una Scuola che viene dunque a colmare una lacuna che rischia di farsi voragine. Il primo ciclo formativo della Scuola di Politica Etica è costituito da un susseguirsi di sei incontri, giunti ora dopo la conferenza (la comunicazione travolgente )del prof. luciano M. Fasano,brillantissima quella del Dott. Patelli e finalmente la conferenza del prof. Enzo Marseglia tanto intrigante quanto significativa , la comunicazione travolgente (quattr’ore di illuminanti suggestioni, un coacervo di informazioni puntuali, una inquadratura critica arricchente) dell’avvocato Alessandro Diotallevi e, a seguire, le comunicazioni congiunte (egualmente brillanti-provocatorie), del giornalista Walter Todaro e dell’ex-presidente del Parco lombardo della Valle del Ticino, Milena Bertani – alla quinta serata o conferenza che, per l’occasione, è stata ospitata presso la sala convegni afferente la parrocchia Pio X di Cinisello Balsamo.
Una serata davvero speciale come si evince dalla lettura del programma di sala: una “lezione” di S.E. Mons. Gastone Simoni, Dottrina sociale della Chiesa e laicità. Cui segue: “i giovani si confrontano con il Vescovo”. Cosa puntualmente verificatasi alla conclusione d’una autentica letio magistralis di Sua Eccellenza. Monsignor Simoni ha tenuto un’articolata e intensissima conferenza incardinata su i fondamentali principi o meglio le “idee-guida” a cui fa riferimento appunto la “dottrina sociale” della Chiesa; “principi” che sono stati commentati uno ad uno da Simoni e che riporto ad usum delphini in forma schematica, per punti: 1) principio del “personalismo sociale”; 2) del “bene comune”; 3) “solidarismo sociale”; 4) “destinazione universale dei beni della Terra”; 5) “sussidiarietà”; 6) “partecipazione a tutta la Terra”; 7) “contro il laicismo assoluto”, ma a favore d’una pluralità vivificante secondo istanza cristiana e laica, secondo propositività francescana e via enumerando. Le idee-guida che dovrebbero disciplinare una rinnovata società civile in cui la politica venga a recitare una nuova bellezza, una scena del Due implicante mondo religioso e mondo laico, radicata sull’amore che è verità e bellezza, verità e artisticità e dunque ancora una volta bellezza, dunque un ruolo un po’ diverso dall’attuale.
Rolando Bellini