Che l’Italia fosse perdente sotto il peso delle condizionalità imposte dall’Unione Europea lo si sapeva già. Ma era difficile immaginare che lo sarebbe diventata anche in un settore in cui il Paese ha da sempre primeggiato per qualità dei prodotti offerti e per l’incidenza delle sua quota di “Made in Italy” del PIL. Parliamo di agricoltura e di tutta la filiera produttiva che essa sostiene e promuove nel settore gastronomico e per il quale l’Italia si è conquistata nel corso degli anni una posizione decisamente di primo piano nel mercato globale.
Orbene, oggi anche questa “eccellenza” nazionale viene messa a rischio da una politica agricola europea (PAC) che, incurante delle peculiarità economiche dei Paesi membri impone regole e direttive che altro fine non hanno se non quello di perseguire gli interessi di gruppi sovranazionali intenzionati a monopolizzare le risorse agricole del Pianeta.
In nome della CO2, della lotta all’inquinamento, della preservazione della biodiversità e della riduzione della dipendenza chimica, la nuova PAC, inaugurata nel 2023 e valida per tutti i prossimi anni fino al 2027, impone una serie di misure volte a stravolgere il sistema delle coltivazioni e della produzione agricola favorendo, da un lato, la diversificazione delle colture (con altissimi costi per le aziende) e, dall’altro, l’abbandono delle terre coltivabili. In Italia una Regione, l’Emilia Romagna, ha risposto, e con incredibile solerzia, all’appello di Bruxelles e, con decorrenza dal 2024 ha disposto per gli agricoltori che volontariamente abbandoneranno le coltivazioni l’erogazione di un “premio” valutabile tra i 500 e i 1500 euro per ettaro per un periodo di 20 anni. Chiaramente traspare da questo provvedimento il piano europeo della transizione ecologica cui si ispira; e ciò nella considerazione che tra gli obiettivi primari adottati dalla nuova PAC figurano: la mitigazione dei cambiamenti climatici, l’adattamento dell’agricoltura ai loro effetti, la sostenibilità delle produzioni e della gestione delle risorse del territorio e la riduzione dell’inquinamento.
In Italia già 3,7 milioni di ettari risultano oggi abbandonati. Un’estensione enorme di terra che, per costituire un patrimonio unico ed esclusivo del nostro Paese, meriterebbe, in un’ottica di valorizzazione, di essere invece adeguatamente considerata ai fini di un piano nazionale di sviluppo. Nella stessa prospettiva si inserisce, peraltro, l’altra misura appena ora decretata da Bruxelles: quella che impone lo “stop” alle monocolture di grano duro e di mais. Ebbene, in queste condizioni non è difficile immaginare quanto l’agricoltura italiana rischi di essere penalizzata e con essa tutte le collegate produzioni dell’agro-industria. E del pari, è anche facile prevedere come, a fronte dei costi che tali capovolgimenti necessariamente comporteranno nel generale sistema delle coltivazioni, sempre più agricoltori verranno indotti all’abbandono delle terre e, dunque, ad una fuoruscita dal mercato per rafforzare, per contro, la tendenza delle imprese più strutturate e di maggiori dimensioni a rilevarne le attività e la stessa proprietà delle terre lasciate incolte. Le conseguenze di una tale politica sembrano ovvie. Da un lato si dovrà procedere all’importazione dall’estero dei prodotti mancanti sul mercato nazionale e, dall’altro, si favorirà il consumo degli alimenti sintetici e il ricorso alle sementi transgeniche per “efficientare” le nuove produzioni.
Ma quanto accade in Italia, per via delle condizionalità di Bruxelles, non dovrebbe sorprenderci più di tanto. Il fenomeno, infatti, non si limita al nostro Paese, ma anzi si inserisce in un quadro di speculazione ben più esteso e al di là dei nostri confini. La tendenza alla eliminazione dal mercato dei piccoli imprenditori è, infatti, un obiettivo strategico delle grandi multinazionali che, negli ultimi decenni, hanno raggiunto un altissimo livello di concentrazione e, dunque, di monopolizzazione della produzione e del commercio dei prodotti alimentari. Nomi come Dow, DuPont, Monsanto sono oggi colossi del c.d. “agribusiness” che, soltanto per il settore sementiero, insieme ad altre tre “corporate”, controllano ben il 63% dell’intera produzione mondiale di sementi mentre questa solo nel 1981 era distribuita tra ben 7 mila aziende del comparto. Non solo, ma l’interesse di queste multinazionali a conseguire un controllo sempre più incisivo ed esclusivo dell’”agribusiness” è provato dalla loro strategia volta ad acquistare sul Pianeta le terre più redditizie sotto il profilo della resa e più dotate per presenza di risorse idriche. E’ questo il fenomeno noto come “ land and water grabbing” (furto di terra ed acqua). Una pratica ormai affermatasi a livello mondiale volta ad assicurare al cartello agroalimentare il controllo delle terre più fertili e più rimunerative. E’ la solita storia del libero mercato! I Paesi meno sviluppati, ma dotati di grandi estensioni di terre coltivabili, vengono indotti ad aprirsi al “mercato” in nome delle libertà democratiche, offrendo in tal modo alle grandi imprese multinazionali enormi opportunità di speculazione. La sovranità viene così erosa, e con essa il diritto dei popoli di decidere del proprio destino e… perché no? In questo caso anche di quello alimentare!
Bruno Scapini
già Ambasciatore d’Italia
Presidente Onorario e Consulente Generale
Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria