Un’immagine epocale che suscita una narrazione a puntate.(Parte prima)
Una storia contemporanea tutta da commentare che ci riconduce alla Rivoluzione francese, fondamento dell’odierna modernità Occidentale.
“Il Sole 24Ore” nell’imminenza elettorale francese ha pubblicato per i suoi lettori un articolo sostenuto da un’immagine affascinante per i suoi molteplici rimandi – come si vedrà – e attrattiva – per certa piccante esposizione d’una bellezza femminile che chiamando in causa il bello ma anche istanze apollinee e dionisiache, freudiane e laçaniane – come si vedrà – suscita curiosità e invidia: invidia per i francesi e per quest’animazione politica di piazza ricca di così tante belle presenze! Un’immagine che un fotoreporter attratto quanto noialtri – quanto il sottoscritto – è riuscito a scattare al volo, proprio quest’immagine che vede protagoniste, forse non proprio per caso, due giovani e belle donne attiviste di parte sinistra (ma poteva ben darsi che fossero attiviste di destra, nulla sarebbe cambiato!), belle e generose perché si mostrano senza fare sconti per il piacere dei nostri occhi travolte dalla loro stessa passione repubblicana e di quella voglio parlare: una passione repubblicana, dunque moderna, figlia dei Lumi e della Rivoluzione francese tutta raccolta e sintetizzata in questa fotografia di cui mi sfugge l’autore – certamente noto – consistente peraltro in una foto-digitale giornalistica, foto verità o di reportage, raccolta da un testimone-fotoreporter presente sul campo, in place de la Republique, si è dunque a Parigi, per festeggiare il nuovo fronte repubblicano che univa tutte le sinistre – quello che poi ha vinto – e cioè il Front Populaire, costituitosi per arginare e mettere in minoranza il partito di destra della signora Le Pen, una destra anomala, le cui origini stanno nel governo collaborazionista dei nazisti invasori della Francia, in pieno conflitto mondiale, dunque tutt’altra cosa che non quella destra formatasi invece in seno alla Resistenza francese, gollista o di sua discendenza, che oggi può comunque vantare i gagliardetti e i meriti della resistenza guidata dal generale che le ha dato, con la paternità, un nome e una dignità totalmente estranea all’altra, ma anche alla nostra destra italiana, essa pure estranea e anzi avversa alla nostrana resistenza nostalgicamente legata com’è al fascismo e dunque all’asse Roma-Berlino, alias il patto d’acciaio tra Mussolini e Hitler che ci ha portati a perlucce come le leggi razziali e finalmente la batosta senza precedenti della sconfitta che ha chiuso la guerra mondiale scatenata dagli hitleriani, facendo del Bel Paese sopravvissuto ai disastri della guerra – come tutti sanno – uno stato a metà, vincolato in un limbo di semi-autonomia e dunque di giusta dipendenza statunitense. Giusta – spiego subito – per una semplice ragione: perché a perdere la guerra è statoa l’allora Italia fascista, il regime mussoliniano e post-mussoliniano, legato ai destini hitleriani della Germania – che tutt’oggi ne paga in qualche modo, anche dopo la caduta del muro di Berlino, lo scotto – e dunque sanzionato tanto quanto l’alleato nazista. Malgrado l’aver portato a casa l’onore, salvato appunto dalla nostra Resistenza italiana, armata dall’antifascismo. Questi sono semplici fatti, null’altro. Ma torniamo al nostro argomento. Si stava dicendo dei gollisti che pur essendo conservatori son altra cosa rispetto all’altra destra Le Pen, avendo partecipato ab ovo, in principio, all’azione francese – dei francesi che avevano a cuore la propria libertà – del riscatto iniziato sin da subito nelle colonie – l’impero coloniale francese fino alla guerra ancora in piedi (tanto quanto quello britannico) – nei riguardi dell’occupazione nazifascista durante il rovinoso ultimo (o penultimo?) conflitto mondiale – che, evidentemente, non ha insegnato proprio nulla a nessuno, tanmeno Oltralpe, stante un Macron guerrafondaio – e che ha visto salva Parigi per miracolo. Querelle complessa su cui non dirò alcunché, per restare viceversa sulla cronaca. Una cronaca che merita proprio ampia – pedagogica – chiosa, una sequela di annotazioni a margine, giusto per educare il lettore.
La coalizione di sinistra,che negli animi più reazionari fa pensare a un ritorno al Terrore di Robespierre, dunque al momento più difficile e tragico della Rivoluzione francese, ai meno colti fa pensare piuttosto alla degenerazione della Rivoluzione d’ottobre, quella russa, che ha portato alla costituzione dell’Unione Sovietica, e peggio ancora alla sua caduta e corruzione quand’essa è declinata nello stalinismo, è ben motivata dall’opposizione a tutta un’altra destra che nulla ha o ha mai avuto a che fare con la Resistenza e, in parallelo, la guerra aperta al nazismo svolta dai francesi in quanto trattasi piuttosto, a grattare il fondo della storia, d’una destra che è un parto del collaborazionismo di Vischy. Che cosa presenta questa immagine? In estrema sintesi, tutto.
C’è un cartello alle spalle di due figure femminili su cui sta scritto in caratteri quadrati pseudo-romani: “Libertè-Fraternitè-Egalitè. Un cartello improvvista, scritto all’impronta, insomma popolare: segnale d’una Public History in atto. Poi ci sono queste due giovani donne, due avvenenti ragazze agghindate alla Marianne, che in italiano è Marianna. Abbigliate in codesto modo le due splendide ragazze fanno un certo effetto, entrambe si son tolte i vestiti contemporanei per richiamare e attualizzare la storia, una certa storia e infatti delle due una si propone persino col rosso cappello frigio in testa, nude fino ai fianchi, un lembo dell’abito che scende in qualche modo sulle gambe allacciato su una spalla, seni – splendidi – al vento, braccia alzate mentre cantano (si presume) la Marsigliese. Al di là dell’incredibile simbolo che vengono a rappresentare e dell’indubbia attrattività dovuta alla loro bellezza fisica, ma anche al loro appassionante partecipativo slancio, al di là del gran bel colpo d’occhio, perché parlarne?
Un valente storico della Statale di Milano, Antonino De Francesco, pubblicò nel 2018, a Parigi, La guerre de deux cents ans (Les Èditions Perrin) poi tradotto in italiano l’anno dopo con il seguente titolo Tutti i volti di Marianna. Una storia delle storie della Rivoluzione francese (Donzelli editore, Roma), 2019. Il saggio in effetti esplora (una sorta di schedatura storico-critica orizzontale) il tema iconografico per quello che vale come simbolo rivoluzionario. Nell’Introduzione De Francesco esordisce così: “Sul finire del 2015, una polemica accademica ha per breve tempo raggiunto gli onori della cronaca: l’Insitut d’histoire de la Révolution française, il caposaldo degli studi rivoluzionari, costituito nel 1937 alla Sorbona su impulso dell’eminente storico Georges Lefebvre, rischiava di chiudere i battenti”, causa crisi finanziaria: quella che ha portato alla pandemia, per intenderci Covid19, nel 2019.
“Pierre Serna è stato l’ultimo direttore di un ente che ancora nel 1989, in occasione del bicentenario della rivoluzione, era stato il motore delle celebrazioni”: istituto depennato nonostante il decreto d’istituzione portasse, ci ricorda De Francesco, “la firma di Jean Zay, ministro martire della Resistenza le cui ceneri [nel 2015] erano state appena traslate al Panthéon”.
Questo, a parte lo stupore e il rammarico per un simile triste epilogo, per parte italica consola un po’ dal momento che attesta come le corbellerie e le ingiustizie storiche le combinano anche altri, non solo gli italiani d’oggi, creduloni, disinformati, ingaglioffiti da ogni perdita di criticità e indifferenti al calpestio – idiota – delle loro stesse libertà. Allo stesso tempo, tutto questo allerta: lancia un grido di allarme generale che adesso suona a sirene spiegate, sotto l’impensabile bombardamento dell’egoismo sordo, ignaro, ottuso, in una parola becero che sembra aver contagiato un po’ tutti, unitamente a un calo d’intelligenza generale: si è più stupidi, dicono le statistiche e conferm,ano i fatti, specie quelli politici. I cialtroni inconsapevoli – non so se verrò censurato per questo lessico schietto, ma tant’è, nel senso: è un fatto – dilagano nell’Italietta contemporanea, con emergenze persino ridicole che in qualche caso si arrogano competenze che non hanno, saperi da loro lontanissimi come, per esempio, certe pretese letterarie e cert’arte rettorica che, nei fatti, viene subito meno tanto quanto la capacità di comprendere, per esempio, la nuova e attuale frontiera degli studi di fisica quantistica, di matematica, di biologia e biochimica, di ingeneria tecnologica, ma anche di letteratura comparata e via dicendo. Certi presuntuosi evidentemnete deboli di mente sfoggiano un sapere da uomo della strada, e al seguito una serie di atti che li portano persino fuori strada, ma condotti con una arroganza imbarazzante, d’un livello infimo. La Rivoluzione – quella francese – si continua a studiare, ovviamente. Ma è capita? Bisogna pur dire che se certe discipline volgono all’estinsione: per esempio la storia dell’arte; ecco che certe altre fruttificano sempre più, rinnovandosi: per esempio, la storia. Dal 2005 molte prospettive storiche, facendosi carico di nuove istanze critiche, altri attrezzi ermeneutici, sono mutate o si sono rinnovate e riposizionate. Ma c’è stata pure la novità, complessa, della “Global history” che ha contestato il 1789, riconducendolo a un passaggio fra i molti del travaglio che ha portato alla difficile nascita del mondo contemporaneo. Voglio dire: molti nodi sono venuti al pettine, ora bene e quanto mai opportunamente e ora male e quanto mai strumentalmente: accade da sempre.
Lo storico britannico Charles Walton ha sollevato il problema che “l’idea stessa del binomio rivoluzione e modernità implichi un brutale processo di esclusione tra un noi, deve starebbero quanti abbiano fatto il 1789 o ne abbiano condiviso i valori, e un loro, che raccoglierebbe chi non ne avesse sulle prime sperimentato gli effetti”, sostiene nel merito Antonino De Francesco nel suo libro sulle Marianne poc’anzi richiamato, in più, secondo Walton, “trascinerebbe con sé lo stigma delle origini, inevitabilmente razziste e colonialiste, della supremazia europea e finirebbe per fare un torto al processo rivoluzionario”. È un esempio, ve ne sarebbero molti altri, della problematicità implicata. Ma ci pensate, è lo stesso dualismo che oggi, da noi, si vuol rinverdire tra destra e sinistra nazionali, un anacronismo.
Ora, per tornare alle due Marianne e al libro citato, assai bello, snello (appena 397 pagine indici inclusi), leggibile, accessibile proprio a tutti, Tutti i volti di Marianna di De Francesco, tocca dire altro, intrecciando una sempre nuova storia rivoluzionaria che supera le criticità anni Trenta-Quaranta del secolo scorso e una controstoria controrivoluzionaria – l’uomo non riesce ad ammettere neppure le evidenze lapalissiane, pur di autogiustificarsi curando i propri interessi di parte – ma che, al fondo, è anche frutto di sensibilità, interessi anche culturali e ideologie contrastanti e, alla fine, colma lacune assurde come il passo indietro di Napoleone sul diritto di voto alle donne, l’abuso razzista a danno di Santo Domingo, da parte francese, i riverberi negativi dell’imperialismo eurocentrico condizionati soprattutto dal Regno Unito che va guadagnando il più vasto dominio coloniale mai visto prima, trionfante poi in età vittoriana, molte altre magagne tra cui, clamorosa, quella relativa alla rivoluzione americana e la conseguente fondazione degli Stati Uniti d’America che nascono pur sempre a detrimento – un genocidio – dei nativi americani, dilatano all’inverosimile la tratta degli africani neri, sfruttando in lungo e in largo la schiavitù, anche ben dopo la guerra di secessione e anzi, mutatis mutandi, fino a oggi: nel senso, la discriminazione razziale è anche un problema a stelle e strisce. Tuttavia, il ruolo del 1789 – così brillantemente rievocato dalle due splendide Marianne contemporanee – alla fine rimane e divide un prima e un dopo storico e questo dovrebbe far riflettere.
Oggi – soprattutto dopo la lezione di François Furet, come sostiene De Francesco, molte e anzi “tutte queste parole [spese sulla Rivoluzione e fino all’Impero napoleonico] suonano in qualche modo scontate” per gli addetti ai lavori, gli storici, quanto meno i consapevoli tra loro che l’illusoria concezione d’essa – come pratica e come professione – sia costituita su un oggetto concreto, i documenti, un metodo di lavoro neutrale applicato a una realtà oggettiva, ben consapevoli in vero che ciò corrisponde, di fatto, a una pia illusione (ma si dovrebbe aprire una ampia parentesi abbandonando per un momento De Francesco, in riferimento per esempio a quanto Charles V. Langlois e Cherles Seignobos, Introduction aux études historiques, 2014, postulano in merito al principio che la disciplina storica si radichi e si giustifichi sul lavoro negli archivi, “perché niente sostituisce i documenti: senza documenti, non c’è storia”, sostengono. Costoro, dunque, sostengono una visione perlomeno parziale e viziata da un quesito: che cosa si deve intendere per documenti e che ruolo vengono poi a recitare i criteri di loro accumulo e, successivamente, acquisizione? Contano più le tracce private del singolo o quelle delle istituzioni, delle rappresentanze e dei gruppi di potere che manipolano dall’alto le classi sociali subalterne o viceversa? A ciò segue un ulteriore interrogativo. Che storia narrano gli archivi se osservati nella loro stratificazione materiale, storica, spaziotemporale, nella loro ragion d’essere o motivazione costitutiva? Vale a dire se osservati e soppesati dalla parte del costruttore d’ogni singolo archivio. A cui tiene dietro, ovviamente, una stessa attenta disamina rivolta piuttosto alle ragioni e ai criteri che ne hanno decretato – e da parte di chi e perché? – la conservazione e tutela, talvolta anche la valorizzazione (implicante varii passaggi: setacci, emendamenti se non addirittura epurazioni ecc.). A cui potremmo far seguire un altro quesito: vale di più, come fonte storica – credibile – ogni testimonianza rintracciabile negli archivi disponibili e riconosciuti e perciò raccolti e conservati, per esempio la Guardarobba medicea, o quanto può essere recuperato dal basso, per scoperte e ritrovamenti acquisiti attraverso altri e nuovi o inediti raccolti documentali? E ancora, tornando alle fonti archivistiche consolidate, quali sono più attendibili tra due tipologie o famiglie di documenti o testimonianze storiche, cioè certe, relative, poniamo, ai documenti che possiamo definire a tema: gli uni riferiti all’attività, per esempio, di un’istituzione come il Sant’Uffizio post-tridentino, gli archivi cioè relativi alle attività di vigilanza e quant’altro dell’Inquisizione e gli altri o meglio, in questo caso, l’altro, perché si tratta di una sola fonte documentale, afferente invece all’epopea napoleonica – su cui però si hanno montagne di documenti d’ogni ordine e grado che possono funzionare da contrappeso rispetto a quest’unicum – e cioè il memoriale autobiografico dettato personalmente da Napoleone a Sant’Elena, la sua ultima battaglia, su cui ha lavorato quotidianamente e con assiduità, dettando, rileggendo e correggendo, giorno per giorno? Sulle prime diresti che il dettato napoleonico pecca di un’intenzione autocelebrativa e del punto di vista unilaterale dell’uomo, anche se un grand’uomo, anche se il protagonista assoluto della vicenda, intento a narrare di sé la sua stessa parabola esistenziale, e dunque sotto il profilo documentale, benché fonte informata sui fatti – napoleonici – va presa con le molle rispetto ai ben più oggettivi dati offerti dagli archivi dell’Inquisizione, compreso quello “segreto” del Vaticano, accessibile su dispensa o concessione particolare. Ma poi scopri – è accaduto per esempio a Venegono superiore e Castiglione Olona grazie a un ritrovamento dei verbali originali, veri, di un processo per stregoneria contro cinque donne, recuperato dalla Marchi anni or sono in una porta murata di un antico palazzo – che i testi per esempio degli “interrogatori” delle streghe, per lo più alla fine condannate e abbrucciate, sono stati tutti quanti censurati o ripuliti prima dell’archiviazione e dunque come testimonianze credibili valgono assai meno di quella autobiografica dettata dall’Imperatore…). Tutto sommato aveva ragione Nietzsche: la storia è una interpretazione, essa è data da una interpretazione e la sua narrazione.
Questo, intendiamoci, è chiarissimo per chi, comunque, è avvezzo a maneggiar storiografie, per coloro i quali hanno dimestichezza con le narrazioni e con il microcosmo, complesso, della comunicazione e sanno decostruire ogni informazione, ma gli altri? Gli altri intesi senza distinzioni di sorta, né di genere, né di pelle (di razza è dire un’idiozia), di confessione eccetera, fino a comprendere le discriminazioni di censo giacché anche i ricchi, molto spesso, son ignoranti – e se poi perseverano pur avvertiti nell’ignorare, anche se ricchissimi di denaro, son poveri di scienza e conoscenza, dunque sono asini. Ebbene, tutti questi “altri”, che possiamo chiamare, distinguendo dagli addetti ai lavori e dagli educati o informati nel merito, la massa del pubblico generalista (me compreso) che include – paradossalmente in apparenza, correttamente, in verità – anche tutti coloro i quali si sono formati o stanno operando nel mondo della comunicazione – articolata in un ventaglio amplissimo di branche o specializzazioni e ambiti – fasce più edotte e tuttavia in ogni caso inesperte come, poniamo, i diplomati di vario livello a cominciare da quello apicale o universitario in “scienze della comunicazione”, ovvero ed anche i giornalisti e i pubblicisti che fanno i saputi, ma non sanno (esempi clamorosi anche, certo non mancano: sarà sufficiente fare l’appello, muovendo dai media capintesta le televisioni per approdare ai quotidiani, le miscellanee, le radio ecc.….). Aveva ragione Carlo Cattaneo: la peggiore categoria a cui rivolgere interrogativi storici è quella degli inconsapevoli e degli ignoranti – coloro che ignorano – così come, intendiamoci (sempre lui) rivolgere domande geografiche e cartografiche a chi non è né geografo né cartografo e via dicendo, insomma tutti quei presunti sapienti sempre contenti di far parte della massa dei “credenzoni”.
L’utilità di questa segnalazione, beninteso, è duplice: da un lato cerca di sollevare un bel problema insorgente coi testi e ipertesti digitali e ora ancor più critico grazie alla cosiddetta “intelligenza artificiale”, a petto di un rilievo: vale a dire la constatazione che stiamo assistendo a una sempre più evidente analfabetizzazione di ritorno, di matrice digitale, un universo mondo (direbbe Vico) ai più inaccessibile, ai molti disponibile e tuttavia in larga parte inesplorato, ai pochi capace di esprimere il proprio senso: la sua stessa architettura strutturale e fattuale, la cui improvvisa e dirompente apparizione e rapidissima evoluzione per lo più tecnologica, ma agganciata ai linguaggi e a una sua propria filosofia, sta provocando un dilagare preoccupante di dislessie, discalculie e via enumerando e ciò induce molti – non diciamo i più, ma molti – a eludere il problema per accettare-accogliere strumentalmente quello che vien messo loro a disposizione e basta. Un esempio: non più solo le tesi e tesine universitarie né più solo i dottorati di ricerca, ma anche i progetti di ricerca spacciati per innovativi, anche le pubblicazioni di saggi su riviste di settore altamente specializzate, anche la pubblicazione di studi monografici è sovente plagio, manipolazione artificiosa, ovvero una testimonianza – caso un po’ meno grave – di uso spudorato di “i.a.”, intelligenza artificiale, dando contezza d’una prativa viepiù diffusa. Certo, non nuova: un tempo il plagio poteva anche premiare, aiutando la costruzione di una brillante carriera universitaria: è questo il caso, per esempio, di Giulio Giorello, che ha assunto giovanissimo una cattedra di filosofia della scienza presso la Statale di Milano, non robetta, ma di cui in più occasioni e modi è stata comprovata quest’illecita pratica da colleghi indignati, da lettori sconcertati, da studenti nauseati. I fan di Giorello – comunque brillante articolista, una buona firma de “il Corriere della Sera” di Milano, gli va comunque riconosciuto – son arrivati a sostenere ch’egli era piuttosto che un falsario o un bluff come filosofo, un pioniere: stava anticipando il futuro. Forse hanno ragione, se guardiamo all’oggi. Sennonché, in un caso come nell’altro e più in generale nel volgere la nostra attenzione al fronte contemporaneo ecco che s’impone un nodo cruciale: è sempre più necessario e persino urgentemente imperativo doversi sincerare delle fonti, della verifica delle fonti cui attingono questi strumenti digitali, prima di affidandosi scioccamente al mare magnum di soggetti come, per non fare che un esempio, wikipedia; è vitale, onde evitare d’esser menati per il naso (quello di Pinocchio per chi ha il privilegio d’verlo di legno e così sensibile alle bugie) provvedere a ogni lettura una verifica sull’autentiucità dell’autore e sulla veridicità delle sue stesse fonti. Dall’altro lato, il problema dell’allontanamento da tutto ciò che può creare disagio e disparità, dunque non accettazione – più o meno consapevole – delle linee-guida e delle parole d’ordine imposte dall’alto, con conseguenze disastrose: un esempio per tutti, ma clamoroso e tuttora irrisolto, la battaglia sulle cosiddette fack-news, accusa che parti avverse rigettano l’una contro l’altra, accusandosi appunto reciprocamente: a mano che la rete consente un ampliamento e una accessibilità alle informazioni, è insomma una occasione crescente di democrazia aperta e plurale, almeno sulla carta, a mano che l’affermazione del digitale apre inesplorate possibilità di comunicazione e di verificazione, ecco che le false informazioni si sono centuplicate e di pari si sono scatenate le reciproche accuse fra i differenti promotori di news digitali, ma perché? La costruzione e il commercio di fack-news è un bisiness colossale destinato a una evoluzione esponenziale, e crescerà a dismisura interessando molteplici tavoli con un risultato generale o complessivo: falsificare la verità e confondere le utenze. Il singolo non saprà più distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso. Questo è lo scopo.
Diciamo meglio: era questo l’obiettivo. Ora le cose si complicano, proprio grazie all’apparizione della cosiddetta “intelligenza artificiale”, poiché la “i.a.” comporta anche il rovescio della medaglia: una notevole facilitazione a chi desidera scoprire queste manipolazioni, queste falsificazioni reiterate. Che – va detto – interessano peraltro l’intero corpo sociale e le cui conseguenze possono avere ricadute trementer.
Un grand’esempio – inconfutabile – in questo senso è stato offerto a tutti e sulla pelle di tutti, con le campagne vaccinali anti Covid19. Tutti coloro i quali hanno accolto l’appello alla “vaccinazione” – molti hanno dovuto subire per cooptazione e cioè per obbligo pronunciato dall’alto: leggi i medici e i paramedici ospedalieri, per esempio – hanno dovuto necessariamente sottoscrivere un documento, un documento ufficiale, di stato. Lo hanno dovuto fare obbligatoriamente, altrimenti niente salvifico vaccino. Questo documento ufficiale – emanato da un Ministero di intesa con un’Agenzia globale, parrebbe – in ogni caso farà la storia: resterà tra quelle fonti archivistiche che testimonieranno la vicenda. Dunque vacuo nasconderlo. Ma il problema è un altro nell’economia della presente narrazione: com’è stato redatto e perché, da chi e perché, e come era leggibile, se lo era. Vistoché si trattava di una sorta di testo normativo-procedurale simile a quelli – fasulli – sulla privacy: che è, come ormai san proprio tutti, una bufala fingente di rispettare una norma di legge, svuotandola d’ogni significato, redatto come un test da snocciolare per punti: ok questo, ok quello, sì, sì, sì e alla fine, pert premio una firmetta libero tutti e, subito dopo, l’agognato vaccino! Veniva sottoposto a tutti coloro i quali si presentavano volontariamente per sottoporsi, volontariamente, alla vaccinazione ottenendo in cambio l’ambito “green pass”: il lasciapassare per condurre un’esistenza fuori dal ghetto, liberi, guadagnando al tempo stesso una difesa rassicurante per la propria sopravvivenza contro un virus feroce, pericolosissimo e incurabile quanto contagioso. Dunque il problema era anche di tempo: quanto tempo per assumere-comprendere-sottoscrivere questo documento prima di ricevere il salvifico vaccino? Poi era di capacità di lettura e decodifica, poi ancora di ricezione-assimilazione-reazione e infine accettazione consapevole. In ragione di ciò un passaggio essenziale rispondeva al seguente interrogativo che ogni lettore potrà rivolgere, in segreto, a sé medesimo. Chi ha letto veramente letto, e letto attentamente e consapevolmente quel foglio prima di firmarlo e sottoporsi al vaccino? Chi sa decodificare un documento?
La massa dei più – categoria “credenzoni” – non sapeva destrutturare il foglio in quelle condizioni e in un lasso di tempo così limitato e così ha firmato supinamente, cioè passivamente, per poi assumere in fretta e furia il salvifico farmaco: ci mancherebbe, prima di tutto aver salva la vita! Si contava su questo: disinformare, educare all’azione passiva indotta dalle circostanze e da tutto il resto (compreso il corredo di info ufficiali, menzognere perché mancanti di dati e cioè censurate, ma perché censurate? Non c’è rischio di querela è un dato di fatto: censurate nel rispetto di precise direttive ufficiali, emanate in ogni dove), altrimenti – è stato poi sussurrato – avremmo rallentato la distribuzione a pioggia dei vaccini e il cordone sanitario anti-Covid19 non riusciva. Hanno detto, dopo. Hanno detto: è stato per necessità virtù, tant’è che gli eventuali indiziati o colpevoilizzati di tutto ciò son stati poi assolti, anzi son stati proprio assolti in gran fretta, prima che con il corrente 2024 emergessero dubbi, fondati su fatti, su dati di segno contrario e simili. Ma questo è tutta un’altra storia, che altri ha già raccontato per di più, dunque lasciamo cadere. È stato ammesso a denti stretti da qualcuno che, comunque, si è agito d’urgenza: una grandiosa azione di pronto soccorso, sanitariamente parlando una sorta di carica del Savoia cavalleria mirabilmente portata a buon fine! Sfumando o meglio tacendo del tutto l’altro aspetto, inquietante, della faccenda: per poter circolare liberamente c’era l’obbligo di vaccino, come sopra detto, altrimenti una via crucis fatta di balzelli e permessi varii, test e conseguente pass o segnale verde da acquisire in farmacia e insomma, si è fatto leva, giustamente, sull’illibertà individuale del singolo cittadino a che la manovra riuscisse in fretta. Una costrizione? Iun atto incostituzionale? E se fosse, il fine giustifica i mezzi e la paura fa novanta, ragazzi. Quello che importa, a mio avviso, è il risultato: un buon risultato, raggiunto in fretta anche. Il cui esito, naturalmente, ha previsto una precisa concertazione. Si sono applicati modelli raffinati di controllo sociale e assoggettamento individuale: il modello più evoluto di discriminazione sociale di massa che vanta, peraltro, una lunga e ben documentata esperienza vissuta risalente nella storia e al tempo stesso ancor radicata nel presente: un tema su cui tornerò a dire più avanti. Anche perché, usa dire, la posta in gioco era alta: la pelle della collettività, la qualità della vita civile, l’obbligo di arginare l’ondata pandemica! Il fine giustifica i mezzi, ripeto, dicono certi lettori (adottando evidentemente sguardi un po’ distorti) del Machiavelli. Dunque, ben vengano certe forzature pur di raggiungere e il prima possibile l’obiettivo. E così è stato, ma a quale prezzo? Chi ha dubitato, nei casi peggiori, è stato allontanato dal posto di lavoro se non licenziato in tronco, ma perché? Con quale diritto, quello dell’obbligo vaccinale per tutti? Non essendo un sindacalista non debbo impugnare o rivendicare questa questione e posso tornare, tirnado un respiro di sollievo, alla mia narrazione. L’esempio ricordato e sommariamente riassunto in taluni suoi profili problematici (taluni non tutti) attingendo non già alle opinioni o interpretazioni ma ai dati di fatto, alla concretezza delle tracce restate sul campo – una parte, perché altre tracce direbbero molto di più, aprendo però altri scenari che allontanano dal nostro contendere – senza punto interpretarle ma invece collazionandole e basta, quest’esempio riconduce, a ben osservare, e per più ragiuoni, ai primotrdi della democrazia moderna d’Occidente, e così ci riporta in tema.
Qualcuno, a posteriori, ha ammesso parzialmente le cose, qualcun altro neppure questo. Taluno, a posteriori, ha parzialmente riparato il mal fatto, tal altro, no, convinto piuttosto di aver ben fatto. Si rischia di scivolare nel microcosmo delle opinioni se si va avanti, se si vogliono approfondimenti analitici, dunque meglio mollare il tutto dopo che si è assunto e postulato la motivazione di un simile richiamo esemplificativo: i corsi e ricorsi vichiani della storia, questa volgarizzazione del pensiero del filosofo partenopeo corrisponde, a quanto pare, a verità, la verità storica, quella degli uomini, sempre parziale e confutabile. Però fa venire alla memoria un motto napoletano che doveva piacere anche al grande Giovan Battista Vico, frutto d’una saggezza urbana, alias collettiva. La saggezza napoletana farà sorridere il lettore: “Chi ha avuto ha avuto. Chi ha dato, ha dato. Scurdiamoce u’ passato!”. Neppure tutti, dunque, stavo dicendo poc’anzi, hanno abbozzato – a cose fatte s’intende – una giustificazione plausibile o l’esposizione d’un qualche ragionevole dubbio. In specie, i rappresentanti di vertice dell’intera operazione hanno semplicemente agito e taciuto. Meglio ancora: i più hanno tirato dritto (“Tirem innanz”, sembrano dire… ) e l’intero corpo sociale italico, alla perfine, ha accettato tirando un sospiro di sollievo: basta pandemia, ecco quello che importa. A questo siamo, in effetti. Meno male. Allora, perché riparlarne? Per ragione storica, come sarà più chiaro e anzi evidente, fra poco.
Ricapitoliamo quest’esemplare vicenda e torniamo, dunque, a interrogarci nel merito.
Ma com’è stato possibile tutto questo? Com’è che perlomeno l’80% dei vaccinati (diciamo così per non dover dire: il 99%) non si è reso minimamente conto d’aver sottoscritto un documento in cui accettavano il “segreto militare” (altrove fu detto così: il vaccino è segreto militare! Perché si era in guerra?) e cioè l’ignoranza totale del prodotto assunto, segretato, ma di contro si facevano carico personalmente d’ogni eventuale conseguenza negativa. Tradotto: tutti cavie inconsapevoli e a carico loro! In Italia sarebbe cosa incostituzionale andando a confliggere con gli articoli della nostra Costituzione che garantiscono tra le altre le libertà individuali. Ma tant’è.
Ma anche di questo, pochissimi si son resi conto. Anche perché – dopo anni di impegno in questo senso anche sul fronte educativo: una materia del sistema-Scuola italiano come “educazione civica” ridotta a cenerentola opzionale e di conseguenza mai àgita – assai pochi italiani hanno letto e commentato analiticamente la Costituzione italiana e così non la conoscono. Tutto qui. E questo – come si è potuto toccare con mano appunto per la campagna vaccinale anti Covid19 – fa assai comodo a chi comanda, permettendo azioni d’ogni tipo senza tema di rilievi critici di sorta. Al tempo stesso, però, fa assai male al sistema-Paese, come si va verificando ormai giorno dopo giorno. Tutto questo, per tornare alla nostra narrazione, che centra con il nostro contendere? Attenzione: ma qual è il nostro contendere?
Dal momento che, ragionando di vaccino-anti Covid19 ogni singolo lettore è implicato personalmente e per di più potrà interrogare se stesso nel merito domandandosi: io che ho fatto e che consapevolezza ho avuto, se ho sottoscritto quel foglio assumendo poi il vaccino, nel sottoscrivere appunto il foglio di accettazione-assunzione vaccinale? Ero un medico, un infermiere, o come usa dire un operatore sanitario e non potevo non farlo. Oppure: ero un insegnante, o altro, un opersatore soiciale o un fruitiore sociale – gli studenti della Scuola e del terzo livello – e non potevo non farlo. Ovvero, non ero una categoria sociale vincolata a obbligazioni di sorta, perché pensionato, perché non occupato o imprenditore, ovvero casalinga o casalingo, lavoratore autonomo e via dicendo, e avrei potuto evitarlo. Così come potrà tornare a chiedersi: come e perché ho reagito negando il vaccino? Che cosa mi ha spinto a rifiutarmi di accettarlo? Diffidenza, paura, altro? O s’è trattato d’altra consapevolezza incentrata proprio sulle modalità procedurali e comunicative proposte? Sta di fatto che si è chiamati, personalmente, a riflettere sui propri comportamenti e sui propri pensieri– io stesso in primis – e tutto questo può portare argomenti alla causa di cui vado dicendo. Certo che una gran parte del comportamento collettivo per quello che è dato stabilire sui fatti, sta a dire: l’inconsapevolezza è dovuta a anni di diseducazione al libero pensiero, alla elaborazione critica, alla verifica d’ogni sapere tradotto in una performance insindacabile e non in un qualcosa da smontare e rimontare criticamente ogni volta, e così la perdita e estraneità alla speculazione ha tradotto il singolo in un servo, un uomo a metà, parte, direbbe Hannah Arendt, di una “umanità superflua”. Comico o tragico? Tragicomico. Ma su questo forse non c’è più molto da dire: esiste una “umanità superflua”, passiva. Ma esiste da quando? Eccoci tornati al punto.
Esiste una “umanità superflua”, a mio modo di vedere, dal tempo repubblicano moderno e cioè dal tempo della Rivoluzione francese che ha determinato una nuova storia per tutta l’Europa, per l’intero Occidente moderno che ne è disceso. E chi lo dice? Ogni testimonianza possibile, ogni traccia documentale, ecco tutto. La tesi che vado sostenendo e argomentando ruota sul documento: ogni documento – a cominciare dalla foto-giornalistica delle due belle Marianne a seno nudo in piazza a Parigi pochi giorni orsono che ho sopra citato – e insomma ogni traccia concreta d’una vicenda, è parte integrante-necessaria (ma non sufficiente) della storia, è storia tout ocurt, ma non da solo, anche perché, tirando a conclusione, domanda d’essere validato, d’essere verificato nella sua presunta autenticità, domanda d’esser letto e interpretato correttamente, d’essere iscritto nella galassia documentale nei giusti – corretti – termini. E, conseguentemente, se ne debbono sempre verificare le fonti. E va poi posto in un contesto ben più articvolato e ampio, nel flusso vitale della storia, appunto.
Per mancanza collettiva di familiarità con i documenti, con la lettura critica, con quella che si direbbe una visione accostabile a un certo realismo critico, radicato sulla concretezza, i fatti, le cose, a cominciare da quelli del giorno. Ma fatti, cose ecc., preventivamente vagliati, setacciati e via dicendo. Cosa che nasce, a monte, da un ritorno alla lettura e alla riflessione che essa porta con sé: l’aver separato, decenni e decenni orsono, la dimensione umanistica da quella scientifica, le scienze umane cosiddette da quelle dure, cosiddette, è stato il disastro di cui, oggi, tutti quanti paghiamo dure conseguenze. Ebbene, tutto questo nell’imperante era digitale rischia d’essere irrecuperabile, lettera morta. Come porvi rimedio, come tornare sui nostri passi e recuperare il nostro personale orientamento critico?
Credo di poter dire – vado a concludere, motivando dunque ciò che scrivo – un buon modo per recuperare il terreno perduto può essere quello di restituire dignità e valore alla storia e ai documenti storici – di ieri e del tempo presente – incentivando lo spirito critico, la consapevolezza critica di ognuno, idest il libero pensiero. Dunque, quanto sin qui richiamato su più fronti e senza alcun intento polemico e invece con spinta motivazionale criticamente costruttiva, muovendo da un fatto di cronaca, dall’oggi insomma, o quasi, richiede un ritorno all’attualità, al tempo presente. Muovendo da quest’attualità, come facciamo a ritrovare noi stessi e il perduto nostro senso critico?
Come tornare a tale orientamento e al conseguente apprezzamento di tante cose che ne discende? Per affezionare e appassionare nuovamente il pubblico generalista alle problematiche richiamate sia sottotraccia sia esplicitamente sin qui credo proprio si debba tornare a leggere e a saper leggere. Assumendo, tra l’altro, letture diversificate su tutto, alimentando così una curiosità onnivora e preventiva, che è poi la cura più semplice-efficace o immediata e meno costosa attraverso cui recuperare il perduto senso critico che conduce a una concretezza e pienezza di vita vissuta consapevolmente, senza eguali, e migliore sotto molti profili dal momento che ti porta a non giudicare, a non assumere atteggiamenti e opinioni superficiali o collettive sia perché di facile acquisizione sia perché così fan tutti! Basta col comportamento coatto massificato, bisogna dunque rovesciare il guanto: tornare a atti e situazioni individuali e riflessive. Dunque, tornare ai libri – ma come, ora che i libri stanno scomparendo? Non è un po’ paradossale e senz’altro anacronistico? Lo è, sì, e proprio per questo è efficace-interessante – ma purtroppo v’è unproblema: centri di lettura e di meditazione sulla carta stampata, i libri, esistono, o no, nel Bel Paese? Esistono luoghi simili in cui – come era un tempo negli esclusivi-reazionari-imperialisti club inglesi – si ha modo di coltivare e corroborare lo scambio, aperto, molteplice e ricco, di informazioni, di conoscenze, di opinioni e di sensazioni, o no? Esistono in Italia postazioni in cui si dia agio all’intreccio plurale di punti di vista, di opinioni, senza far barricate anacronistiche fra destra o sinistra e simili, che è roba del passato, o no?
Una rinnovata e generalizzata affezione alla lettura e alla pratica del confronto critico resta, al fondo, la soluzione prima. Purtroppo però per l’ottenimento del presunto e dichiarato obiettivo occorre superare un ulteriore ostacolo: l’inesperienza. Molti leggono, son tornati a leggere, dicono le statistiche, ma purtroppo non comprendono fino in fondo, ovvero finiscono per limitarsi a credere solo in ciò che hanno letto ignorando il resto se non addirittura, negandolo: dando per scontato che gli altri presentano fack-news o proposte avverse per partito preso, su tutto, perché questo accade nella rete! L’analfabetizzazione di ritorno ora trionfante in questa contemporaneità che vien definita l’era digitale, è dilagante. Tremende le sue conseguenze. I più si attengono alle faide digitali, al loro esempio imperioso, tutto qui. Veniamo così a sciogliere il nodo cruciale attorno a cui s’è dipanata l’intera rappresentazione, questa scrittura. Andando a recuperare quel fondamentale momento storico da cui tutto – così credo – è partito. E motiva profondamente questa stessa scrittura.
Quello che penso e sostengo nel merito ha una sua collocazione: risponde al tema della cosiddetta elaborazione storiografica. Indovinate un po’ qual è – per il sottoscritto – la via risolutiva delle criticità sin qui richiamate che sono state corroborate dalla totale mancanza di una bussola e cioè di quel fondamentale senso critico che deve nutrire di sé il singolo. Essa ha un nome ben preciso. È appunto la via maestra dell’esplorazione storiografica attorno a un tema.
Dato che per avallare una tesi non è sufficiente postularla, ho scelto di argomentare, nel caso, di una identità storica definita e di farne, appunto, il nostro caso. Per evitare riverberi contemporanei dal malsano colore politichese, un caso storico, dicevo, e anzi il caso storico, la pietra angolare che ha generato tutto questo. Perché la storia è – come recitavano i nostri nonni – “maestra di vita” o, quanto meno, dovrebbe esserlo. Quale casus belli, qual è il caso di riferimento, dunque? Quello che ho già più volte tirato in ballo: il caso emblematico – per l’Occidente – della Rivoluzione francese.
Ma perché proprio la Rivoluzione francese?
Ho scelto questo tema perché risale alle radici stesse della modernità – la nostra modernità – di cui quanto sin qui congetturato è parte. Ho deciso per un tale argomento storico da un lato perché aiuta a stabilire, appunto, l’orizzonte storico entro cui muoversi e dall’altro lato invece perché, in questo specifico caso, potevo appoggiarmi e attingere a un libro assai convincente e perfino brillante, che così mi guarda le spalle, mi assicura referenze verificabili, serie, concrete e al tempo stesso suggerisce la complessità cui sempre si deve fare riferimento rivolgendosi alla storia o per dir meglio: “una storia delle storie della Rivoluzione francese” – che sono un fascio enorme di direttive compresenti, interagenti ecc. – qual è quella narrata con piglio, con acume, con una certa finezza dallo storico Antonino De Francesco emblematicamente, stando al sin qui detto, nel 2019!
Infine, e in terzo luogo, per un fatto e cioè proprio per la sua tanto sorprendente attualità, declinata per di più, nella fattispecie, in una accezione unica e tutt’affatto particolare: vale a dire quella particolare circostanza cui ho fatto esplicito riferimento offerta, direi proprio con generoso slancio e probabilmente un gesto spontaneo, entusiasta, da due ragazze parigine o provinciali, non c’è più differenza, della Francia attuale che è figlia di primo letto della Rivoluzione, idest di Libertè, Fraternitè, Egalitè: intendo quella immagine pubblicata dal “Sole24Ore” delle due Marianne, festanti, le due giovani anonime summentovate, giunte sulla stampa estera, come s’è visto. Ma di cui si deve lamentare, per giusta causa, un’assenza viceversa vistosa e senz’ombra di dubbio di per sé parlante, ma in negativo. Ne avessero fatto, difatti, anche solo un breve servizio televisivo – per esempio su Rai news o Rai 3 o i canali culturali ancora esistenti e attivi in campo italico (non sono all’altezza di quanto viene proposto su questo versante in Francia e Germania, ma accontentiamoci) – i più (e di questo ho certezza!) ne avrebbero tratto giovamento e certo, vederle, ne avrebbe valsa la pena, ma perché? Perché interpretano Marianna.
Non vestono un abito di scena, un costume teatrale, né una mise da parata, indossano piuttosto con quel loro generoso mettersi in mostra a petto nudo un simbolo: vale a dire il simulacro dell’eroina rivoluzionaria – Marianna appunto – cui fa da contrappunto il Danton morente di Delacroix, martire – per mano femminile – immolato alla causa repubblicana, quella stessa che in quel frangente infuocato corrispondente agli ultimi due decenni del XIX secolo in cui, a fronte della minaccia antirivoluzionaria, la classe dirigente parigina di fede appunto repubblicana e dunque di credo rivoluzionario forzava i termini del confronto e si rifaceva, come riferimento storico, al momento eroico del 1793 e alla successiva stagione costituzionale, quella stessa causa cui deve la propria fortuna – facciamo questo solo esemplare riferimento – Alphonse Aulard che, negli anni immediatamente precedenti il 1889, finalmente giunto a Parigi, come sostiene De Francesco: “mise a punto le coordinate culturali del proprio programma di rinnovamento degli studi rivoluzionari”, facendo leva, per cominciare, su un ritratto di maniera di Danton, cui sarebbe seguito una misurata e opportuna presa di distanza dagli apologisti del robespierrismo, “in linea – è ancora lo storico ha guidare i nostri passi – con il discorso politico del momento” pur in procinto di mutamenti tali per cui ogni referenza storica avrebbe cambiato di segno e di senso di lì a breve, mutando tutte le prospettive “in parallelo allo sviluppo dei programmi per le celebrazioni del centenario”. Che, in buona sostanza, potrei spiegare al lettore, viene a corrispondere al primo effettivo e al contempo al primo favolistico bilancio storico della Rivoluzione e del suo portato.
Tanto è vero che, sintetizza magistralmente De Francesco: “Ora, per Aulard [dove ora sta per dopo il 1886, grazie a manipoli di studiosi ed eruditi, quand’egli, alla direzione della “Révolution française”, seppe coordinare uno scavo archivistico proficuo i cui primi esiti vengono pubblicati nel 1889, in tomi monumentali, operando dunque da bravo positivista – secondo una declinazione del positivismo mutuato da Auguste Comte – con un intento concreto: perseguito e, a suo modo, raggiunto dal momento che egli finiva per dare, cito sempre De Francesco, “una lettura della rivoluzione quale momento fondatore del sistema politico dell’intero Occidente”, da cui originava, appunto, l’interesse di Aulard per la figura di Danton, derivante in effetti da questa nuova “centralità della Francia nella modernità d’Europa”], la figura di Danton non era più soltanto il difensore di Parigi dall’offensiva prussiana o la vittima di un sanguinario Terrore, quanto – e soprattutto – il più appropriato interprete di una rivoluzione intesa come radicale mutamento della società europea tutta”.
“Su questo nuovo terreno interpretativo si innestava la ricerca archivistica: l’erudizione permetteva infatti di presentare la prova documentaria del nuovo ruolo che Aulard intendeva dare a Danton, cosa che nei suoi propri termini riesce dunque a legare a sé quanto sin qui argomentato e riesce così a dare un senso preciso non soltanto a questo mio argomentare congetturale, ma anche all’incredibile silenzio televisivo esibito dalla Rai-Radio televisione italiana nei confronti delle elezioni di un paese come la Francia che non è soltanto un membro dell’Unione Europea, ma è anche – per le ragioni addotte – il paese-simbolo di questa Unione Europea, piaccia o non piaccia, nella misura in cui è stata la fucina della modernità Occidentale.
Sommiamo, infatti, questo profilo di Aulard al profilo di Danton redatto dal pennello di Eugenie Delacroix e i due esiti percettivi e simbolici, sommandosi l’un l’altro, genereranno un volto dell’Europa moderna, madrina dell’Europa attuale, di grande effetto e in parte tuttora vivo e presente.
E su cui, in forza di ciò, si dovrà riflettere.
Tiene a precisare – a conferma della giustezza di questa particolare chiave di lettura che vado avanzando nei riguradi del caso – proprio De Francesco sul conto di questo personaggio e della sua stessa interpretazione dello Aulard, da collocare, egli dice, – attenzione – “nel quadro di una lettura militante del processo rivoluzionario”, che, nella visione di costui Danton “non era solo il protagonista della svolta repubblicana, non era solo l’artefice della giornata insurrezionale del 10 agosto e colui che aveva purtroppo chiuso gli occhi sui massacri di settembre; piuttosto, rappresentava il vero uomo politico della nuova Francia, colui che l’aveva salvata dalle minacce interne e esterne, anche forzando la legalità – come nel caso dell’espulsione dei girondini –, ma sempre con il fine ultimo di salvare un processo rivoluzionario altrimenti destinato a frantumarsi contro gli scogli delle lotte di fazione”.
L’incredibile vicinanza di tutto ciò alla realtà contemporanea mi pare si faccia di proposizione in proposizione, di parola in parola, viepiù evidente e per così dire, irrevocabile quanto irrinunciabile. La manipolazione storica messa in atto dallo Aulard ha un preciso obbiettivo: il suo scopo è quello di mostrare come la caduta dell’eredità rivoluzionaria data dall’ascesa di Napoleone sia dovuta al Terrore il cui unico impedimento era nelle mani di Danton, la cui linea politica – diversamente da quella del Robespierre – avrebbe condotto, secondo Aulard, a un esito positivo della rivoluzione, dal momento che, impedendo il Terrore, avrebbe evitato pure “il sacrificio della sua classe dirigente migliore” e, conseguentemente, “sarebbe stata scongiurata la minaccia bonapartista nonché il ritorno della monarchia”. E in effetti, avverte De Francesco: “A guidare la penna di Aulard era l’esaltazione dei gruppi democratici, dove a primeggiare era sempre Danton, l’autentico artefice della svolta del 1792, il valoroso difensore di Parigi, l’uomo che il 31 maggio 1793 aveva saputo salvare la rappresentanza dall’assalto delle sezioni alla Convenzione e che certo avrebbe continuato a combinare libertà e rivoluzione, se solo Robespierre non lo avesse sacrificato al proprio ideale di una democrazia autoritaria”.
Si staglia a questo punto e assume rilievo la figura femminile di Marianna.
Ne discende che l’immagine – di pochi giorni orsono – delle due giovani e belle Marianne scese in piazza a petto nudo per inneggiare a null’altro che a una passione civile gemmata da un’istanza repubblicana e dunque gemmata dal costanto della Rivoluzione, riesce ad assumere un rilievo significativo, una valenza e una pregnanza particolari e – conseguentemente – il voluto vuoto-silenzio Rai assume il tono di un tuono clamoroso, un rombo potentissimo che dovrebbe offendere e indignare il singolo cittadino italiano, figlio – nel bene e nel male – di quella rivoluzione e della sua modernità, della post-modernità, dell’oggi.
Come si può facilmente rilevare e come risulterà tirando le fila del discorso, tutto quadra. Tutto sembra recitare, allora, la parte di un puzzle pre-figurato, tornando a puntino alla propria posizione designata, per così dire, sin dalle origini, dando così modo all’intero mosaico di arrivare a conclusione. Meglio ancora: quest’ultimo richiamo può darsi addirittura come quadratura del cerchio!
Potremmo concludere citando ancora l’autore del volume avvertendo il lettore che mai prima di questo libro era stata tentata una lettura: “per il tramite delle fortune storiografiche della rivoluzione”. Mai prima Marianna era stata fatta oggetto di una tale attenzione. Da qui la sua attualità. Il nostro lettore potrà farsene ampia e motivata ragione leggendo appunto questo volume ovvero andando a richiedere alle teche Rai ciò che è stato archiviato nel merito e cioè a dire, nella fattispecie, sul conto delle elezioni francesi appena concluse e che – vedi mai – hanno dato un esito che non è piaciuto per nulla all’attuale – democraticissimo e moderno – governo italiano da indurre, nel rispetto di un clima politico particolare? In risposta a una precisa direttiva di governo? Non è dato sapere a noialtri, non oggi, magari invece in un prossimo futuro, chissà, non si ha dunque modo di poter stabilire la verità documentale o fattuale, e questo silenzio Rai, macroscopico e allarmante, poiché testimonia un’immaturità politica enorme, anacronistica, ridicola a dirla tutta, questo dato di fatto ci peserà sulle spalle – intendo proprio le spalle di tutti, piaccia o non piaccia – e proprio sulle spalle tutti gli italiani, giacché la Rai è ente di comunicazione di stato, per gli anni a venire così come pesa già adesso.
Che cosa se ne ricava e qual è l’elemento innovativo offerto alla nostra argomentazione? Se già al tempo di Aulard veniva rovesciata una certa lettura che correva dal Terrore a Napoleone, tornando a puntare il cannocchiale sul Direttorio, ecco che appare più chiaro a questo punto l’inevitabile mutamento costante d’ogni narrazione storica che, inevitabilmente, si riferisce e si attaglia alla contemporaneità, attualizzandosi. Dunque aveva ragione Benedetto Croce – ma questo De Francesco non lo dice – e cioè che la storia si attualizza in noi nel momento stesso in cui la si interroga. Ne discende anche altro, naturalmente. Altro che può stare per un ulteriore insegnamento storiografico – e così ecco che viene confermata l’importanza della storiografia – visto che la ricostruzione dello Aulard, insegna De Francesco, tenendo conto degli sviluppi, convulsi, della terza Repubblica (“la minaccia monarchica, il moderatismo di larga parte della classe dirigente, il tentativo di tirare il freno sullo sviluppo dei diritti civili, la confusa agitazione dei circoli estremisti, le gesta del generale Boulanger”) e insomma “tutto quanto scorreva nel presente della politica di Francia”, risultava essere “il prodotto di una storia secolare e portava i segni dei tanti eventi trascorsi”. E “Per questo motivo, – insiste De Francesco – l’Histoire politique [di Aulard] diveniva una sorta di breviario della classe politica della terza Repubblica, uscita vittoriosa dall’affaire Dreyfus e desiderosa di stabilizzare nei termini della laicitàil proprio successo. Inutile dire lo Aulard ne sartebbe stato lo storico ufficiale e al tempo stesso il gladiatore nell’arena del confronto culturale”.
Provassimo, adesso, a domandarci che potrebb’essere, sull’attuale ribalta politica italiana, per la cronaca l’equivalente dello Aulard in campo italiano contemporaneo, che risposta potremmo avere? È pur vero che, a ben osservare con occhi critico di storico – quello di A. De Francesco – si evidenzia come l’intento di Alphonse Aulard fosse quello di “farla finita con la vulgata reazionaria”, anche se di fatto la manovra gli riuscì a metà e non senza contraddizioni palesi. La sua, non scordiamolo, era una Histoire politique! Dunque oggi in Italia chi potrebbe emulare Aulard, chi lo potrebbe mai rappresentare? Ne abbiamo una qualche necessità, o no? Ne sentiamo per caso il bisogno? Non direi. Tuttavia, manca un vero dibattito politico nell’Italia oggidiana.
All’epoca in cui agiva Aulard era ancor forte, in Francia, il ricordo della Comune – un evento su cui si ha una limitatissima letteratura, guarda il caso – ed era un freno in ogni senso, questo era un monito significativo venendo a impedire, alla fin fine, che “la polemica contro la Repubblica borghese e opportunistica potesse essere archivisata in tempi brevi”. Oggi qui da noi com’è la situazione italiana? Allora, nella Francia di Aulard, “Ancora in occasione del 1889. nonostante l’amnistia fosse intervenuta a restituire la cittadinanza (ma non l’onore politico) ai comunardi, il confronto con una terza Repubblica sorta sulla punta delle baionette di Thiers divideva profondamente la sinistra francese” e oggi, oggi che accade con questa nuova allenaza della sinsistra francese in Francia e più in generale in Europa? Se ne parla con la dovuta attenzione e consapevolezza in Italia, o no? Si badi che non poche criticità messe in luce anche dal portato dello Aulard finirono per restare in vita e per condurre alla prima guerra mondiale, quella Grande guerra che ha chiuso un’epoca e un’Europa, per aprire la disastrosa fenomenologia che ha portato alla seconda guerra mondiale!
Mi fermo qui, reputando sufficiente quanto sin qui detto e variamente argomentato – seppure in estrema sintesi – scendendo coi piedi per terra per calare nella piena e pulsante attualità. Credo infatti che ora si possa e si debba rilevare in tutta la sua macroscopica e anacronistica gravità quest’illecito silenzio politico della Rai che è anche un silenzio culturale e sociale richiedente una lettura, una chiave di lettura critica adeguata. Direi ch’essa è riconducibile a un punto fermo: l’inadeguatezza dovuta a ignoranza. Non è più il tempo dell’Indice – chi lo ricorda? – che raccoglieva, un tempo, le letture proibite, negate, messe appunto all’indice (nella maggioranza dei casi elenchi affissi sulle bacheche comunali e sulle porte delle chiese) perché “peccaminose” in più di un senso: lo strapotere della rete digitale impedisce censure – ne consente, certo, oscuramenti, ascolti illeciti, manipolazioni, controinformazioni di massa d’ogni ordine e grado, oggi, sono all’ordine del giorno – e vuoti di memoria, nega di fatto le manipolazioni eccessive o troppo vistose. Non vale la pena farne il cavallo di Troia di chissà quale polemica politica. Sarebbe, oltre tutto, una ricaduta nell’errore, anche politico, credo io, marciando nella direzione dell’inadeguatezza, appunto. Lasciamo stare la politica oggidiana dov’è, in questo fragile scenario politico attuale, pert tor4nare a dire piuttosto della cultura, della urgente e necessaria difesa della cultura. Soprattutto una cultura storica!
Si è volutamente richiamato, a latere o cornice dell’immagine delle due Marianne odierne apparsa fiugacemente quanto efficacemente sulla stampa italiana, il centenario della Rivoluzione attraverso una grande operazione cultural-storica àgita dallo Aulard. Ora tocca – a rigore – al bicentenario. Avvicinandoci all’oggi le cose si fanno più scottanti, ci toccano più da presso, ci stanno addosso. Intrigano in altra misura, irritano anche, eccitano, sì, eccitano esaltano e deprimono richiamandosi sempre più alla nostra stessa quotidianità.
Massimo Vedibene
[segue]