Un’immagine epocale che suscita una narrazione a puntate.(Parte seconda)
Dalla Rivoluzione francese all’attuale modernità europea, qual è stato il ruolo di Marianna?
In un volume monografico, si è sin qui detto, – uscito nel 2019 – lo storico Antonino De Francesco, Tutti i volti di Marianna. Una storia delle storie della Rivoluzione francese, ripercorre l’intero dibattito storiografico, e cioè a dire la disamina fra le differenti letture della Rivoluzione, da ieri a oggi, educando alla riflessione storiografica: facendo leva su questa fenomenologia storica e, in ultima analisi, ponendo in rilievo l’importanza della storia per comprendere appieno l’oggi, l’attualità.
Giusto in riferimento a quanto argomentato in questo libro di storiografia critica assai brillante, assume rilevanza particolare un fatto: la mancata comunicazione in presa diretta dell’esito elettorale francese da parte dell’ente di stato Rai – a tutta evidenza su indicazione dall’alto, diciamo così, dato che, francamente, la supposta distrazione o dimenticanza non è cosa ammissibile, non per parte Rai! – e un’immagine fotografica, suppongo Ansa, apparsa sul “Sole24Ore” di due avvenenti Marianne, vestite da Marianne rivoluzionarie e cioè personaggi del secolo dei lumi, il XVIII secolo, quello rivoluzionario, scese in piazza la vigilia elettorale, a Parigi, inneggianti a un fronte popolare o unito delle sinistre francesi. Questi due elementi – intrecciandosi – hanno suscitato nello scrivente quest’urgente riflessione che fa leva, appunto, sul libro dello storico alla luce dell’incredibile e parossistico oscuramento o silenzio assoluto della Rai-Radio televisione italiana. Scrivo per educare alla riflessione di merito, per accendere un interesse poltico, sperando di suscitare un acceso dibattito, infine. (Ma fra parentesi possiamo anche aggiungere altro, seppur marginale. Converrà aggiungere e precisare: un ulteriore motivo di interesse e di attualità del tema che si va trattando – attenzione! – è dato dall’imminente apertura delle Olimpiadi a Parigi. C’è poi in corso il Tour de France, un evento atletico-ciclistico eminente, che vanta una pletora di fan anche in terra italiana. Dunque, i possibili motivi di interesse possono essere molteplici). Riprendiamo il nostro dire, questa narrazione.
Riprendiamo la narrazione dal dibattito storico di allora qual è stato architettato in occasione del bicentenario della Rivoluzione, perché si era arrivati lì, non già nei termini ampi e puntuali di De Francesco – chi vorrà e potrà ne leggerà il libro –, quanto piuttosto in estrema sintesi e per sommi capi (ma sostenendosi allo storico A. De Francesco, anche per ricordare che occorre sempre aver chiare le fonti, citarle correttamente ecc., non come viceversa capita di dover riscontrare e come accade sistematicamente – pertché le fonti son opache e mal certe – su strumenti quali quelli che vanno per la maggiore in rete e son frutto, apparente, di un dire comune, un dire dal basso, una narrazione che, apparentemente, sembra afferente alla cosiddetta “public history” che solitamente non ne fa menzione!, mentr’invece assai di frequente è frutto di manipolazioni artate a monte: parte integrante di quella falsificazione generale che industrialmente viene alimentata massime dai sistemi di controllo e di potere vigenti, oltre che da minoranze borderline, perché esistono anche queste: una storia tutta da raccontare, prove alla mano, ma tutta un’altra storia).
Ci si è lasciato alle spalle – ricorderà il lettore – il centenario rivoluzionario francese. Inoltre, a breve riprenderemo anche l’immagine fotografica (digitale, delle due belle e appassionate Marianne contemporanee, ma intanto iniziamo con la seconda puntata sul dibattito storico intercorso proprio in merito alla matrice della modernità che abbiamo, il dibattito sulla Rivoluzione francese secondo Antonino Di Francesco e non solo. Conviene infatti aggiungere alcuni ingredienti al menù. Ma intanto, riavviamo la narrazione dando la parola allo storico.
Sostiene, non Pereira (ch’è il protagonista del più convincente romanzo di Tabucchi su Lisbona in cui senti il sapore del Tago, la forza del mare, i vuoti e i pieni ora desolati e ora splendidi della città), sibbene De Francesco, nel suo già ampiamente citato, Tutti i volti di Marianna (2019, a ridosso della crisi isolazionista dovuta a pandemia Covid19), che, in merito alla Rivoluzione francese, si dovrà procedere contrapponendo Cobban, che è tra i primi attori del ripensamento di parte inglese dei fatti di Francia a Lefebvre, di parte francese, laddove riprende in mano il dibattito proposto dalla storiografia anglofona. Lo storico sintetizza: l’avidità con cui Jacob Talmon (The Origins of Totalitarian Democracy, 1952), un ebreo polacco che durante la guerra era scappato nel Regno Unito per poi rifugiatosi in Israele, intende a opporsi al comunismo o marxismo reale, cioè all’Unione Sovietica allora ancora d’impronta staliniana, facendo strumentalmente leva pure sui fatti del secolo breve o filosofico e in particolare sul Terrore, a cui egli attribuiva l’avvento di una democrazia autoritaria contro quella liberale, auspice lo svizzero Rousseau, veniva collocandosi in una corrente di pensiero il cui alfiere, a Londra, era Alfred Cobban – dedito allo studio per esempio del concetto di dittatura secondo Burke e Rousseau –, uno storico criticante il determinismo che, a suo avviso, suggeriva meccanicamente l’inevitabile affermazione di una nuova classe sulle rovine dell’antico regime: il primo atto di questo “revisionismo” storico, avverte De Francesco: “fu un breve intervento pubblicato nel 1954 e il cui titolo, The Myth of the French Revolution, era già tutto un programma”. Il feudalesimo per così dire nella Francia del XVIII secolo, a suo avviso, era ormai assente, l’invenzione della borghesia un parto storiografico francese, mentr’invece esistevano gruppi capitalistici: l’avversario era il marxismo, in verità. Cobban insistette su questo, negli anni a seguire. “Nel 1964 – sostiene De Francesco –, con la pubblicazione della sua Social Interpretation of the French Revolution, Cobban puntava chiaramente l’indice contro [… l’idea che] una rivoluzione borghese e capitalista avesse rovesciato un antico ordine feudale”, scagliandosi così anche contro il Précis di Soboul. In buona sostanza, d”la diffidenza verso il liberismounque, “Cobban negava […] che esistesse una borghesia rivoluzionaria [in Francia, nella seconda metà del XVIII secolo, sotto Luigi XV e a maggior ragione neltempo rivoluzionario], perché il 1789 era stato l’opera di una congerie di classi medie estremamente diffidenti nei confronti dell’innovazione” agenti in un sistema lontano da ogni modernità e ciò che li teneva assieme era piuttosto, a suo avviso, la ritrosia verso il liberismo economico. “Le conclusioni di Cobban – scrive De Francesco – erano lapidarie: a fare la rivoluzione non era stata una borghesia in crescita, bensìun ceto medio da tempo sulla difensiva”. Replica a queste e altre asserzioni di Cobban, di altri studiosi inglesi, tra cui spicca Albert Goodwin, docente a Manchester, ma formatosi a Oxford sotto la guida di Thompson, che nel 1953 pubblica una French Revolution, la cui ultima e terza edizione compare nel 1965, dove i primi anni rivoluzionari, 1789-1794, posti sotto l’irriducibile conflitto tra aristocrazia e democrazia, contro dunque Luigi XVI, ma al contempo riduceva le giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793 a a effetti del panico delle sezioni di Parigi a fronte dei rovesci militari. Un po’ troppo. Infine – ecco un vero motivo di tale lettura – Goodwin, aggiornando la storia proiettandola sul presente, andava a contraddire Talmon il quale aveva paragonato il 1793 al 1917, la rivoluzione russa e la vittoria bolscevica da cui era discesa l’Unione Sovietica leniniana e poi staliniana. Si evince così quanto il presente storico condizioni e distorca anche la visione del passato di non poco dibattito storico. Ancora nel 1979, del resto, Goodwin insisteva nella sua interpretazionecon il volume, Friends of Liberty, ancora una volta un portato sul reale peso del giacobinismo, in Francia e fuori, nel caso l’Inghilterra. Il destino di queste letture, tuttavia, ci ricorda De Francesco, “era segnato”. L’esame dell’impatto effettivo dei fatti rivoluzionari si è trasfigurato poco a poco in un puzzle incoerente, frammentario, contraddittorio, finendo però con il presentare analisi sempre più approfondite. L’ultima parola di sintesi è firmata oltreoceano, nel 1978, da John Morris Roberts, French Revolution. Il lettore a questo punto s’interrogherà: come mai tutto questo tempo non si è fatto altro che elaborare sempre nuove e conflittuali analisi di questa pagina cruciale della storia europea? Evidentemente la posta in gioco è alta. Ma tutto questo finisce per scivolare in seconda e terza fila e scivolerà ancora in quarta davanti alle nuove letture. La svolta avviene lo stesso 1978, con François Furet, Penser la Révolution française. Furet contestava Lefebvre, oltreoceano ne erano confortati e incentivati a insistere nel loro revisionismo critico. “Infine, proprio nel 1989 – Simon Schama, il quale pur avendo studiato con Cobb era a Cobban che guardava con ammirazione, pubblicava Civizens: A Cronicle of the French Revolution”, un successo editoriale. Altro testo molto considerato è venuto da William Doyle, The Oxford History of the French revolution. In esso si mostrava quanto l’interpretazione delle origini della rivoluzione si fosse discostata dal modello di Lefebvre, “perché – spiega De Francesco – nelle sue pagine la rivoluzione nasce da un’élite, in cui si mescolano aristocratici e ceto medio, animata dal proposito di ottenere semplicemente alcune concessioni politiche”, mentr’invece quando all’ultimo si associa il popolo, le cose cambiano. “Secondo Doyle, alla fine del 1791 l’Assemblea legislativa ereditava una situazione già profondamente deteriorata da un conflitto politico che correva tutto per linee interne ai gruppi sociali” e la guerra sulle frontiere, i suoi disastrosi esiti, concorse a determinare i fatti nuovi: “dalla caduta dei girondini, al Terrore, al Termidoro”. Stante che secondo Doyle infine la fragilità del Direttorio favorì l’ascesa di Napoleone, decretando il fallimento della politica rivoluzionaria. Fermiamoci qui. Queste letture, quelle sull’instabilità (su cui insiste molto Sutherland), altre ancora, sono tese a motivare la svolta verso il Terrore. Al tempo stesso, far chiudere la parentesi autoritaria al Termidoro, secondo Sutherland, comporta di per sé qualche problema. Dato che da qui discenderebbe il tentativo liberale del Direttorio che, fallendo, dà la ribalta a Napoleone. Pertanto si torna al punto di partenza
Iniziamo col rilevare la lunga e lenta elaborazione di una interpretazione storica, cosa che dovrebbe indurre a riflettere prima di abbozzare un qualche giudizio estemporaneo sui fatti di ieri così come su quelli del giorno. A ciò converrà far seguire il giusto rilievo di De Francesco espresso in più modi: a seconda del modello di riferimento, Tocqueville o altri ben più conservatori, il giudizio sull’arco temporale considerato muta anche di molto. Schama, in tal senso, sembra essere il più drastico dando per certo che tutta la stagione rivoluzionaria s’incardina sul Terrore. I suoi riferimenti sono Burke, Taine, “la rivoluzione è condannata in blocco”. Segno che è una spina nel fianco.
Lo scarto che separa la storiografia anglofona da quella francofona ha concorso a scatenare un ampio dibattito, suscitando non pochi approfondimenti. Ne discende l’utilità di queste divergenze e il peso non indifferente del clima politico e culturale del momento, cosicché l’attualità condiziona sempre il passato e le sue interpretazioni. Non di meno, quello che preme rilevare è che la prima fatica di Furet dedicata al 1789, la Révolution française, di Furet e Richet, Denis Richet, uscì tra 1965 e 1966, a ridosso della Social interpretation di Cobban. Entrambe interpretazioni parziali e discutibili ma che riassumono un po’ il dibattito pregresso e danno la stura a quanto seguirà. Va data attenzione, infine, al tempo in cui questi studi fanno la loro comparsa. Anni in cui evidentemente l’attenzione per la stagione rivoluzionaria francese è maggiore in relazione stretta ai fatti politico-sociali del giorno; anni caldi, a loro volta a ridosso del Sessantotto. Sarà un caso?
Massimo Vedibene
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