Può darsi che vi siate oramai fatta l’abitudine a sapere di proteste di piazza e disordini che succedono qui o là nel mondo quasi ogni giorno.
Questi scontri capitano così di frequente che si è portati a considerarli quasi una costante nelle nostre società, eppure non è sempre stato così.
Da un po’ di tempo a questa parte, il loro numero cresce e così anche la loro violenza. I media si soffermano solitamente di più su quelli che avvengono nel loro stesso Paese o enfatizzano le ribellioni in quei Paesi che il mainstream considera “poco amici” o magari “nemici”.
Se osserviamo il fenomeno con obiettività, scopriamo che non c’è grande differenza se si tratta di Stati dalle lunghe tradizioni democratiche oppure controllati da regimi autoritari: le crisi istituzionali, sociali economiche o politiche toccano tutti quasi allo stesso modo. La sola differenza è che dove la stampa è libera si possono conoscere più dettagli sugli avvenimenti mentre altrove si sa che qualcosa sta succedendo ma le notizie arrivano frammentate.
Il Global Protest Tracker di Carnegie Endowment ha calcolato che nel 2021 le varie proteste antigovernative sono state almeno settantasei in tutto il mondo, con un ritmo di circa un evento significativo ogni cinque giorni. Da questo calcolo è esclusa la Cina di cui si sa che differenti forme di protesta nascono numerose soprattutto nelle zone interne, ma è quasi impossibile poterne avere una esatta contezza.
Nel caso cinese si tratta quasi sempre di forme di manifestazione più o meno partecipate contro i governi locali per ragioni di corruzione o di abusi di potere. La differenza è che, nel resto del mondo le proteste hanno, quasi unanimemente, come obiettivo i governi centrali. Nonostante la scontata reazione delle forze dell’ordine, sia essa attuata dall’esercito o dalla polizia, le ragioni che spingono la gente a protestare violentemente sono le più varie. Nel 2019, prima dello scoppio della pandemia, il loro numero globale conosciuto era stato leggermente inferiore arrivando a solo (!) sessantacinque tentativi di sommossa. Ciò lascia supporre che, come riferiscono anche le cronache, molte delle proteste successive abbiano avuto come innesco i vari provvedimenti restrittivi anti-Covid decisi da molti governi con l’intento di limitare la diffusione del virus. Ben 58 sono gli Stati toccati nel 2021 da proteste di vario genere e vanno dalla Malesia al Paraguay, alla Georgia, al Malawi, a quasi tutti i Paesi europei, agli Stati Uniti e alla Russia. Alcuni di loro non avevano avuto prima di quest’anno sommovimenti popolari anti-governativi e la loro inclusione nella lista può suscitare qualche sorpresa. Un esempio: il Burkina Faso e le isole Salomone.
I motivi che hanno spinto la gente nelle piazze sono diversi:
In Myanmar e in Sudan si è trattato di decine di migliaia di manifestanti che protestavano contro la presa del potere da parte dei militari. Lo stesso è avvenuto in Ciad.
In Tunisia una specie di auto-colpo di stato realizzato dal Presidente Kais Saied ha avuto inizialmente un sostegno popolare ma, in un secondo momento, si sono viste proteste nelle strade chiedendo un ritorno alla democrazia parlamentare. In Benin i manifestanti hanno protestato contro l’autoritarismo del presidente Talon che aveva annunciato di volersi garantire un altro mandato. In Polonia almeno 100.000 persone hanno urlato contro l’erosione dell’indipendenza della magistratura voluta dal governo di Varsavia e avallata dal locale parlamento. In Bolivia, in Senegal e in Georgia molte persone si sono scontrate con le forze dell’ordine per protestare contro gli arresti di leader dell’opposizione che erano stati incarcerati. Negli Stati Uniti, dove si è arrivati persino ad occupare per alcune ore il Campidoglio, il movente è stato la convinzione che le elezioni non fossero state svolte correttamente (qualcosa di simile è accaduto anche in Perù). In Iraq, in Libano e ad Haiti i manifestanti hanno accusato i governanti di essere una congrega di corrotti che perseguivano il loro particolare interesse alle spalle della maggioranza della popolazione e se ne chiedevano le dimissioni.
Proteste e Covid
Tra i Paesi in cui le proteste hanno riguardato misure restrittive alla libera circolazione e requisiti vaccinali imposti dai governi con l’intento di ridurre la diffusione del Covid ci sono diverse democrazie occidentali quali Australia, Belgio, Germania, Francia, Svizzera e, naturalmente, Italia. Nel nostro Paese, oltre e ben prima delle proteste dovute alle misure anti-Covid, abbiamo avuto numerosi scontri in Val di Susa, oggetto della realizzazione della linea ferroviaria veloce Torino-Lione. In Francia sono ben note le proteste dei “gilet gialli” contro una certa politica green voluta dal presidente Macron, politica che penalizzava soprattutto il mondo agricolo. In Paraguay le denunce hanno accusato il governo di attuare una disuguaglianza nell’accesso alle cure mediche e di aver fornito un numero insufficiente di vaccini anche a causa di una diffusa corruzione negli appalti dei medicinali. Anche in Mongolia i manifestanti hanno accusato il governo di cure mediche scadenti e le voci dei manifestanti sono state così forti e numerose che il primo ministro è stato costretto a dimettersi. Motivi più strettamente economici, quali l’aumento del costo della vita, la carenza di beni, i tagli alla spesa pubblica, l’elevata disoccupazione o un aumento delle tasse sono apparsi un po’ ovunque e hanno colpito Paesi molto distanti tra loro come, ad esempio, l’Equador, il Ghana, il Malawi, il Kazakistan o la Colombia. Davanti all’incremento di queste varie forme di proteste popolari tutti i governi hanno reagito tentando di contenerle e, ove possibile, reprimerle effettuando arresti e mobilitando i media contro i manifestanti. Uno degli strumenti attuati da alcuni dirigenti è stato il sabotaggio di tutti i canali social usati per organizzare i ritrovi. A volte, seppur nel minor numero dei casi, le proteste hanno avuto successo e i governi han dovuto recedere dalle decisioni precedentemente assunte. Quasi sempre, tuttavia, o le manifestazioni si sono esaurite naturalmente per non aver raggiunto gli obiettivi auspicati, oppure la forza pubblica è riuscita, con mezzi spesso drastici e numerosi morti, a far rientrare le contestazioni nelle procedure istituzionali ammesse.
Professione “Signor No”
Qual è il tipo umano che si trova tra chi protesta nelle piazze? Chi sono quei cittadini che correndo, a volte, il rischio di perdere la vita o di essere arrestati lo fanno comunque? Una parte di loro è costituita dai “protestatori” di professione. Sono gli stessi che si ritrovano negli eventi contro la globalizzazione, contro i vaccini, contro qualche nuova infrastruttura o a favore di violente tesi ambientaliste. Sono quelli “sempre all’opposizione” indipendentemente dallo specifico motivo e trovano la loro ragion d’essere nel contestare i governi di turno, qualunque essi siano. Nella maggior parte dei casi, invece, si tratta di cittadini davvero esasperati da qualche nuova legge o da circostanze particolarmente penalizzanti. Alcuni di loro mai avrebbero pensato, almeno fino al giorno prima, di diventare protagonisti di una qualche forma di protesta pubblica. Se è vero che tali forme di contestazione sono in costante crescita numerica c’è però da domandarsi come mai accada e perché ora. Anche mettendo da parte quelle manifestazioni suggerite o perfino organizzate da potenze straniere (ci sono anche queste), la domanda resta. Sicuramente l’avvento dei social ha favorito l’aggregarsi dei manifestanti e, ancora prima che ciò avvenga, la diffusione dei temi del malcontento. La globalizzazione delle comunicazioni su scala planetaria ha aiutato certe prese di coscienza e la crescente sensazione di avere dei “diritti” e di poterli far valere sta giocando il suo ruolo. Un motivo unificante, pur senza entrare nel merito di ogni singolo evento, è tuttavia il venir meno dei valori condivisi all’interno della società. Quando era più facile sentirsi una “comunità” riunita attorno a sentimenti condivisi le proteste avvenivano comunque, ma restavano marginali rispetto all’atteggiamento della maggioranza. Sia in una democrazia che in un sistema autoritario, la partecipazione rimaneva limitata a un numero ridotto di manifestanti e solo gravi cambiamenti sociali od economici spingevano le masse a mobilitarsi per un lungo periodo e correndo dei rischi personali. Un’altra possibile spiegazione sta nella necessità di ognuno di confermare una propria “identità”. Per definizione “l’identità” consiste nell’essere se stessi in contrapposizione a qualcosa di diverso, cioè “l’altro” o “gli altri”. In un mondo globalizzato dove le identità si confondono, il protestare contro qualcosa o qualcuno può essere (inconsciamente) il tentativo di ritrovare un qualche “se stessi”.
Forse, tuttavia, non esiste un’unica risposta e ogni caso andrebbe valutato volta per volta.
L’opinione dell’autore può non coincidere con la posizione della redazione.
Mario Sommossa da: SPUTNIK