di Dario Rivolta * – da: NOTIZIEGEOPOLITICHE.NET
In una partita di poker può capitare che uno dopo l’altro tutti i giocatori si mettano ad alzare la posta rilanciando. A volte accade quando tutti si sentono così forti da sperare di arricchire la loro possibile vincita. Più frequentemente invece chi rilancia lo fa cercando di spaventare gli altri e costringerli a “lasciare”, perché lui stesso non è affatto sicuro di avere in mano le carte migliori. In questi casi se nessuno “lascerà”, qualcuno potrebbe prima o poi “lasciarci le penne”.
All’incirca è quanto sta succedendo nella pericolosa partita per l’Ucraina. I russi fanno dichiarazioni dure, lanciano ultimatum e aumentano il numero delle truppe e delle esercitazioni avvicinandosi sempre più al confine. Gli americani, a parte qualche (non insolita) gaffe di Joe Biden, rispondono dicendosi pronti alle più terribili reazioni, pur senza specificare con esattezza quali. Nel frattempo aggiungono nuove decine di tonnellate di armi a quelle che hanno già “donato” all’esercito di Kiev. Gli europei, divisi come sempre, alternano volontà di soluzioni diplomatiche a minacce verbali. La NATO invia navi e aerei nei Paesi dell’Est. I britannici, memori di quanto fatto proprio in quel modo da altri anglosassoni, accusano Mosca di aver “costruito” un certo politico ucraino destinato al compito di far ritornare al governo di Kiev un ensamble filo-russo.
La verità è che, anche se tutti sembrano prepararsi a una guerra, nessuna delle forze sul campo la vorrebbe. Salvo forse l’attuale governo di Kiev. I russi, nel bel mezzo di un’economia in grande sofferenza, non potrebbero permettersela e l’accusa rilanciata con enfasi dai nostri media che Putin si stia preparando ad invadere l’Ucraina è per ora soltanto una mossa propagandistica che fa parte dei bluff. Gli americani, reduci dalla vergognosa fuga dall’Afghanistan e con un’opinione pubblica stanca di vedere i propri soldati impegnati senza capirne il perché in Paesi lontani, non sono certo pronti ad aprire un nuovo fronte bellico. D’altra parte a Mosca capiscono molto bene che un’invasione dell’Ucraina non sarebbe a costo zero e che, anche indipendentemente da un improbabile intervento della NATO, occupare e gestire quel Paese richiederebbe sforzi incredibili. Se è pur vero che la maggior parte degli ucraini ha legami storici, culturali e perfino familiari con i russi di Russia, un’altra parte di quel popolo, dopo aver subito per secoli una dominazione polacca, ha legami dello stesso genere con Varsavia. Ciò soprattutto nelle regioni del nord est. Uno dei problemi degli americani, qualunque possa essere il loro atteggiamento verso Mosca, è che in Europa soltanto i baltici, i polacchi e forse gli inglesi li seguirebbero in caso di decisioni aggressive. Una cosa è manifestare una solidarietà verbale, un’altra sarebbe di impegnarsi con pesanti sanzioni o addirittura con le forze armate contro il maggior fornitore di energia per tutte le economie dell’occidente europeo.
Purtroppo la storia ci dimostra che a volte le guerre scoppiano anche se nessuno le abbia veramente volute e che, da una parte o dall’altra, può esserci sempre qualcuno che sottovaluta i rischi che si correranno. Escludendo probabilmente il solo Emmanuel Macron (e Mario Draghi, ma entrambi sotto la spada di Damocle per quel che riguarda il loro futuro politico), non vi è di questi tempi una classe politica europea di un livello sufficientemente elevato da riuscire a diventare un attore di primo piano nella partita in corso. Il risultato è che pur giocando sui nostri confini chi detta le regole sono altri protagonisti.
Ad oggi le probabilità che davvero scoppi un conflitto sono minime, ma l’ipotesi non può essere esclusa completamente.
Diventa necessario allora chiederci perché e come siamo arrivati a questo punto.
Tutto nacque dall’idea americana che la Russia dovesse essere “contenuta” e dalla fobia psicanalitica dei polacchi di una possibile ingerenza (invasione?) russa nel loro Paese. L’allargamento della NATO ad est fu deciso tradendo gli impegni verbali che l’amministrazione americana aveva assunto con Mihail Gorbaciov in cambio del suo accordo allo scioglimento del Patto di Varsavia. Fino a che tale espansione si limitò ai Paesi non ex-Unione Sovietica Mosca, all’epoca molto debole e preda di una quasi-anarchia interna, espresse solo formali e deboli proteste accettando il dato di fatto. L’aver però favorito l’ingresso dei Paesi Baltici e, soprattutto, aver dispiegato forze ed armamenti NATO in Romania, Polonia e Bulgaria ha alimentato il sentimento russo di essere sotto attacco. Ancor di più la promessa fatta da Bush figlio nel 2008 di far entrare nell’Alleanza anche Georgia e Ucraina (promessa non ancora mantenuta per l’opposizione di Francia, Germania e Italia) ha definitivamente convinto la Russia di essere veramente l’oggetto di un attacco concentrico che metteva a rischio la sua stessa unità territoriale. L’equivoco in cui alcuni analisti cadono, perfette vittime della voluta propaganda americana, è che sia soltanto la persona di Vladimir Putin dietro le reazioni ostili da parte moscovita. Si tratta di un errore gravido di conseguenze negative: Putin sta reagendo come avrebbe reagito qualunque altro governante russo degno di questo nome si fosse trovato al suo posto.
La seconda causa dell’attuale tensione è il progetto europeo che va sotto il nome di Eastern Partnership, voluto soprattutto da polacchi e svedesi. Apparentemente una semplice offerta di collaborazione economica, era invece evidente trattarsi di un modo, nemmeno tanto nascosto, di sottrarre un certo gruppo di Paesi all’influenza russa attirandoli nel campo occidentale in cambio di ingenti aiuti finanziari. Se ci si fosse trattato soltanto di un’operazione di beneficenza, il tutto si sarebbe limitato a un esborso del denaro di contribuenti europei a favore di popolazioni più sfortunate. Fu invece subito chiaro che a questi Paesi si regalavano aiuti in cambio di un loro distacco da qualunque legame con Mosca, sia politico che economico. Non è un caso che si trattasse di Stati che furono parte integrante dell’URSS e che il Cremlino aveva da subito definite come “Estero vicino”. Definendoli così Mosca non puntava a ricostruire l’Unione Sovietica ma voleva mantenere con loro un rapporto privilegiato. In altre parole si trattava di delimitarli come “zona di propria influenza”: Armenia, Azerbaijan, Georgia, Moldova, Bielorussia e Ucraina. Il tardivo rifiuto di Viktor Yanukovich di aderire a quel progetto ha innescato la reazione che ha poi portato alla sua fuga e al governo voluto dagli americani (anche in dissenso con il piano alternativo franco-tedesco). Dopo che fu resa pubblica via internet (probabilmente dai servizi segreti russi) una conversazione telefonica della sottosegretaria di Stato americana Victoria Nuland in cui lo esplicitava, fu definitivamente palese che si trattò in realtà di un colpo di Stato anti-russo. Che il desiderio del Cremlino di mantenere una propria area di influenza su questi Paesi sia giusto e accettabile, oppure ingiusto e inaccettabile, è un argomento che ci porterebbe lontani. Basta ricordare che ogni Paese in grado di farlo persegue simili obiettivi. E’ sufficiente pensare all’atteggiamento francese in Africa o a quello americano in centro e sud America e altrove.
Il problema di oggi è che il possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO implica che la distanza tra il confine ucraino e il cuore del Paese, cioè la sua capitale, si riduce a soli trecento chilometri e in mezzo non c’è alcuno Stato cuscinetto, né una catena di montagne da superare. E’ allora comprensibile che Mosca giudichi tale ipotesi tanto inaccettabile da essere pronta a rischiare una guerra per impedirlo. Ad ovest la distanza con i Paesi Baltici, ove le truppe Nato sono già presenti, è di 800 chilometri e in mezzo c’è la Bielorussia. A sud il Caucaso montagnoso e con diversi Stati cuscinetto fa da barriera con la Turchia, pure membro della NATO. Certo, gli occidentali potrebbero continuare a dichiarare di non avere alcuna intenzione di aggredire la Russia e che l’espansione della NATO vicino ai suoi confini sia solo la conseguenza di una precisa richiesta di quegli stessi Paesi e che non siamo noi a volerla. Tuttavia se così davvero fosse, perché insistere fino al punto da rischiare una guerra?
A questo punto nascono altre domande: perché si vuole così tanto che l’Ucraina si avvicini all’Europa e dimentichi i suoi legami culturali, storici ed economici con la Russia? Perché gli europei vogliono mettere a rischio i apporti con il più vasto paese del mondo, quello che ha le maggiori risorse mondiali di materie prime ed energetiche, quello che per il know how europeo e per le imprese europee potrebbe rappresentare un ottimo mercato? Che senso ha continuare a spingere la Russia nelle braccia dell’unico vero concorrente politico ed economico dell’Europa, che è la Cina?
Che interessi hanno gli europei in Ucraina? Quali sono i veri motivi per cui agli europei viene presentato come un fatto naturale che Kiev debba prima o poi entrare nella NATO? E perché gli europei dovrebbero sborsare miliardi di euro per avvicinare l’Ucraina a tutti i costi all’Europa? Ha un senso per gli europei che la Russia debba essere “contenuta”? E se sì, perché?
* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.