La coalizione di governo giallo-verde vuole riappropriarsi dei gioielli di famiglia. Un tema caldo e giuridicamente complesso. A chi appartengono le riserve auree del paese? Allo Stato e ai cittadini che questo rappresenta o alle istituzioni proprietarie della Banca centrale? I partiti sostengono che sono i primi ad essere proprietari e che l’oro è stato loro sottratto durante gli anni trenta ai tempi del fascismo, quando avvenne la ricapitalizzazione della banca.
In quella occasione assicurazioni e istituzioni bancarie pagarono profumatamente la partecipazione alla Banca d’Italia. Il costo della proposta nazionalizzazione della banca centrale ammonterebbe ad appena 150.000 euro, il prezzo pagato negli anni trenta. Una frazione infinitesimale di quanto venne valutato il valore delle partecipazioni indipendenti della Banca d’Italia nel 2014 pari a 7.500 miliardi di euro. Allora gli azionisti, incluse le due maggiori banche italiane, Unicredit e Intesa Sanpaolo, pagarono una tassa altissima sull’aumento di capitale delle loro partecipazioni azionarie.
A tutto ciò va aggiunto il valore di mercato delle riserve auree italiane, 2.451 tonnellate, stimate ai prezzi odierni a 102 miliardi di dollari. Abbastanza soldi per poter ridurre considerevolmente il debito pubblico pur mantenendo un livello di riserve accettabile. Naturalmente uno stato sovrano può fare ciò che vuole in tema di nazionalizzazioni, ma il vero problema di un paese membro dell’Unione Europea è come tale decisione si relazioni allo status della Banca centrale europea. La Banca d’Italia è co-proprietaria della Bce, insieme alle banche centrali degli altri Paesi membri, una nazionalizzazione e riduzione delle riserve non comprometterebbe l’indipendenza della Banca centrale europea e neppure la sua solvibilità, ma metterebbe in crisi il sistema monetario odierno, costruito sul distacco tra governi e banche centrali.
La proposta di nazionalizzazione attacca proprio questa costruzione dal momento che Lega e 5 Stelle accusano le banche di aver mal gestito la crisi del credito e di essersi servite dei risparmi degli italiani per coprire le grosse perdite. Secondo loro la politica del credito della nazione non può essere lasciata in mano ad istituzioni private che non agiscono nell’interesse pubblico. Qualora il parlamento dovesse dare ragione al governo, si aprirebbe all’interno dell’Unione Europea una nuova crisi, ben più seria della Brexit, crisi che coinvolgerebbe altri stati membri dove il “populismo” avanza.