(dal “diario critico” 2021 di Rolando Bellini)
Marcel Duchamp e Arturo Schwarz, in memoria di quest’ultimo.
Insiste una giovane bella e brillante artista-scultrice esordiente, Martina Terenzi – che è stata mia allieva all’Accademia delle belle arti di Brera, Milano, pel triennio formativo – e con valide-intriganti argomentazioni, ella insiste a sollecitare, attraverso pressanti quesiti e una qualche frizione con il corpo docente dell’Accademia di Lisbona dov’è perfezionanda, linee-guida operazionali e concettuali atte a orientarla in una desiderata crescita artistica senza dover cedere il passo, per questo, a posizioni vetuste o false né, per contro, attuali e illative o vuote e invece provvedendo a raggiungere saldi riferimenti, validi e duraturi. Tali per cui possano sostenerla e nutrirla in questo suo intendimento; insiste nel sottopormi, in quest’ottica ben precisa, le problematiche insorgenti presso l’Accademia lisbonese dove sta portando a buon fine il biennio specialistico o il secondo livello formativo. Sembra che a Lisbona prevalga un orientamento figurativo: nel rispetto di una posizione classica – e fino all’altro ieri, vincente – che mette al primo posto, nella scultura, la rappresentazione a tutto tondo del corpo umano e per di più tradotto in scala 1:1 e cioè pari al vero o più grande del vero, come da tradizione romana antica. Le è stato rimproverato proprio questa mancanza di monumentalità o di elaborazione in grande e sulla figura, mentr’è certo – ne ho avuto la prova quand’era mia allieva – che Terenzi è capacissima anche in ambito figurativo e specie nel rappresentare il corpo umano, possedendo un eccellente dominio della figura, un pieno controllo della forma. Del resto, ne ha dato prova anche a Lisbona, recentemente, presentando una serie di testine-ritratti, una sua ricerca di un qualche pregio. Ma poiché di dimensioni minime queste sue teste, agli occhi dei docenti portoghesi, seppur freschissime e di bella fattura figurale, non han risolto l’obiezione e il velato rimprovero per la mancata monumentalità accreditata o fatta passare artatamente per un fare in grande o per meglio dire su scala abnorme: il monumentale del monumento oggi confuso con la scala topografica o architettonica! Cosa che lascia molto a desiderare, proponendo una scivolata terribile in un passato prossimo già messo alla gogna dalla critica degli anni Sessanta del secolo scorso. Eppur oggi tornato in auge anche alle Biennali maggiori, a cominciare da Venezia, per ragioni scenografiche e spattacolari e dunque di intrattenimento che poco e nulla hanno a che vedere con l’arte e le sue ricerche linguistiche… Questi sono i tempi!
Per non costringerla a un atto di vassallaggio privo di senso, approfittando del fatto che ha un fisico splendido e che potrebb’esser detto statuario nel suo piccolo (richiamate sottobanco il Da Ponte…), le ho suggerito di lavorare sul calco del proprio corpo con duplice obiettivo: soddisfare i docenti lisbonesi (che al fondo non hanno poi torto nell’istigare i giovani a misurarsi sulla figura umana e sul grande formato e dunque una scala corrispondente al vero o più del vero) e soddisfare se stessa in un cimento ad un tempo figurale e concettuale o simbolico.
Cos’è un calco? Cosa per il mondo dell’arte plastica? E come lavorarci su? Per Carpeaux fu un ritorno alla natura e alla storia, che lo ha visto precorrere i tempi: annunciando la Pop Art, in anni non sospetti. Per i popartisti era un’astrazione che trasfigurava la realtà in altro da sé facendo letteralmente migrare oggetti, cose, persone dal reale all’irreale. Meglio ancora: dal reale di natura all’irreale dell’arte. Il ritorno di quest’ultimo come effetto invasivo d’una nuova appercezione sensoriale della stessa realtà, contagiando questa realtà in termini puntuali la modificava e dunque, scopo della Pop Art era proprio quello di mutare o alterare la percezione e il percepito della realtà stessa, generando un terzo universo mondo iperrealista e al tempo stesso iperastrattista, dunque né questo né quello, ma piuttosto una terra di mezzo. Una terra di mezzo che molto deve a Dada e Surrealismo ritornanti, come dimostrerà la tendenza New-dada in primis. Ma certo che nell’accezione “pop” le cose hanno preso una piega particolare con esito davvero intrigante-ambiguo-inquietante che ha fatto molto discutere, scatenando nuove teorie, un altro e nuovo filosofare. Va detto: una volta ch’è stata accantonata la bufala della declinazione in “popular art” (per la fenomenologia nordamericana) di vago sentore marxista e simili, una volta accantonata un’aberrante lettura strumentale, allestita per contrastare l’Informale americano sostenuto a spada tratta dalle istituzioni governative come “vera arte americana” e dalla critica di rilievo per ribadire ch’era proprio un’arte “tutta americana”, si è preso a riconsiderare quest’arte cercando di ristabilirne le giuste coordinate storiche. In quest’ottica ecco che si è altresì imposta una riconsiderazione, meno emotiva, dell’esplosione “pop” dapprima negli States e poi nel resto del mondo. L’esplosione della Pop Art che ha fatto di Manhattan, all’esordio dei Sessanta, un’isola “pop” e della fenomenologia artistica un evento globale, in ogni caso, ha generato un nuovo interesse collettivo e a un’arte si è aggiunta un’altra, a una tendenza un’altra e nuova tendenza, a una fenomenologia di per sé vincente qual era l’Informel made in USA, si è sovrapposta e ha finito per prevale questa seconda e nuova fenomenologia, sempre americana. È così che tutta una serie di animosi attriti si sono volatilizzati e in loro vece è subentrata una sopravalutazione e una supervalorizzazione anche di mercato che ha fatto della Pop Art l’arte più pagata, accreditata, idolatrata. Al tempo stesso, per più ragioni, negli States si è preso correttamente a valorizzare in termini enfatici l’eredità europea di Dada – in parte anche americano, all’origine – e Surrealista – quel Surrealismo migrato negli States per sfuggire alla guerra hitleriana e ch’è attivo quasi sincronicamente di qua e di là dell’oceano mare – e ciò ha scatenato una serie di revisioni, di revival, di innesti sul lascito degli artisti migrati negli Stati Uniti dal vecchio continente, andando così a fecondare l’arte e ogni ricerca visiva del nuovo mondo – “le Indie” le chiama Colombo – a cui precisamente questa migrazione forzata ha dato un qualche contributo. Basti considerare, per esempio, anche un solo esempio: la famiglia Guggenhein (con le due realtà oggi dialoganti poiché riunite sotto un unico cielo, il Solomon Guggenheim Museum di New York e la Casa-museo sul Canal Grande, a Venezia, la casa di Peggy Guggenheim, Ca’ Corner dei Leoni.
Warhol e Company – come attesterà la Factory – e Raushenberg e gli altri popartista americani, prendiamo in considerazione costoro (tralasciando in questo caso la ben differente Pop Art inglese), si dichiaravano – correttamente – eredi di tutte le ricerche pregresse e contro le varie declinazioni dell’Informel, riconoscendo i propri debiti surrealisti. Si sentivano dunque iscritti in questo orientamento generale e si dicevano presenti all’interno d’una ben più articolata e ampia fenomenologia globale, ma sia ben chiaro come manifestazione di vertice di quella gran parte di ricerche attive sul fronte dell’arte contemporanea aperto e plurale e in costante evoluzione, specie dopo il 1961, generato appunto dal lascito Dada e ripreso e rilanciato da quello Surrealista, trasfigurato e attualizzato in questo fascio di declinazioni contrastanti e assonanti che hanno determinato, a conti fatti, un’altra e nuova coralità, una più generale istanza, infine una svolta radicale. E hanno finito per prevalere, complice il potere d’acquisto americano, riposizionandosi al vertice e all’interno di tale fenomenologia, attribuendosi automaticamente il ruolo leader. È così che si avrà riverbero d’ogni impresa artistica contemporanea rivolta al definitivo superamento d’ogni lascito pregresso, sia nel loro stesso fare sia nelle altre proposte contemporanee. Tutti eredi del Surrealismo? Parrebbe di sì. Eredi che possono anche essere letti o tradotti in figli illegittimi di Marcel Duchamp. Precisamente il loro fare è un’eredità dei “ready made” duchampiani in cui poi, a detta dei più, conta il gesto dell’artista che assegna a un oggetto seriale un’altra e nuova identità. In verità contano pariteticamente il gesto (che verrà portato in purezza a estrema conseguenza da Joseph Beuys) e l’oggetto “trovato” e “rigenerato” in altro da sé (ancora Beuys e la natura: i Verdi e Fluxus). Il gesto innovativo o inventato e la forma trovata e rigenerata. Ma ciò non potrebb’essere senza Picasso. Perciò Martina dovrà ricorrervi. Così come non potrà generare nuovi paradigmi in grado di aiutarla a realizzare attraverso il proprio fare il superamento della post-modernità – quella stessa post-modernità destrutturante che ha chiuso con le eredità delle avanguardie liquidando la storia moderna e la sua sfida, gettando a mare ogni resto d’essa e polverizzando la storia pregressa – senza riferirsi a quest’ultimo, eludendo tuttavia il mito picassiano per poterne affrontare l’eredità schietta nei termini portati ora sulla ribalta artistica contemporanea da un’altra giovane e bella artista d’oggi, una protagonista dell’arte contemporanea, di pochi anni maggiore di età, anch’ella formatasi in parte nella fucina braidense, ma con già, oggi, un portfolio nutrito di eventi prestigiosi a proprio carico, dopoché ha esordito a Milano con una personale e a Castiglione Olona entrando nella collezione permanente del MAP (Museo Arte Plastica), l’artista e performer Erica Tamborini. Tamborini (che opera distillando cert’eredità picassiana e duchampiana, in purezza, proprio come Beuys e oltre Joseph Beuys riallacciandoli alla sua implicazione politico-culturale) esplicita in sé una poetica innovativa muovendo, in più di un caso, dal calco: il calco del proprio corpo. Erica è senza dubbio una delle artiste più originali e innovative del momento, la sua proposta è senz’altro tra quelle poche in grado di esprimere la svolta sovvenuta dopo il tramonto del Post Modern. Meglio ancora: Erica Tamborini è l’incarnazione, nelle opere e nelle performance sue, e un’incarnazione trionfante, a mio vedere, dell’urgenza di nuove procedure e nuovi linguaggi artistici al passo con i nuovi accadimenti e le ultime criticità del tempo presente. Pertanto credo opportuno suggerire a Martina Terenzi di assorbirne se non altro l’intenzione programmatica tesa all’abbandono d’ogni posizione epigonica nei riguardi del Post Modern. Un tale riferimento potrà suggerire senz’altro a Martina nuove ipotesi progettuali. In ragione di ciò posso proporre alla Terenzi di guardare a tutti costoro finendo per focalizzare Picasso e la sua eredità contemporanea per quello che può manifestare il “fare” di Tamborini, di pochi anni più avanti di età, s’è detto, dunque più o meno la stessa generazione di Terenzi. Tanto più che quest’ultima sta orientandosi da qualche anno a un fare che si distacca – tanto quanto quello della collega – dall’ultima e ormai obsoleta eredità post-moderna declinandolo in una concreta rappresentazione della percezione femminile così particolare e unica rispetto al trascorso dominio maschile. Martina Terenzi, partecipa pertanto, seppur in nuce, a quanto può essere inteso come un nuovo paradigma artistico e perciò è lecito affermare che Martina si va proponendo – assieme ad altre artiste di nuova generazione – come interprete della nuova era e di questa svolta epocale che sta compiendo in questi stessi giorni i suoi primi vent’anni.
Inoltre, verrebbe da aggiungere a margine: sin dall’elaborato di tesi triennale – un elaborato davvero particolare e decisamente incisivo – ella si va manifestando, con umiltà, quale interprete delle sfide che una specifica presa di posizione di queste giovani donne-artiste va viepiù manifestando e che si traduce – diciamo in estrema sintesi – in una datità formale e materiale innovativa suscitante di per sé una Gestalt rivoluzionaria che mette in discussione non pochi corollari e i saperio cristallizzati di ieri e dell’altro ieri (è in corso un acceso dibattito, specie oltralpe, impugnato dai filosofi). Ma poi quello che conta davvero è la risultante di queste economie di pensiero e di azione, il lavoro artistico. Un lavoro artistico – sto dicendo di Terenzi – che rivela tutta un’altra e inedita possibile lettura proprio del lascito duchampiano. E così, per stabilire la correttezza di queste mie linee-guida, si può fare anche una verifica sul campo in parte almeno di stampo teatrale: Martina sarà coinvolta in un’azione-installazione duchampiana realizzata come verifica dell’appena detto. Lo sarà, assieme al sottoscritto. Dal momento che ho già assunto in più occasioni (film etc.) il ruolo di Duchamp, interpretandolo stanti talune simiglianze fisiognomiche tra lui e me che mi hanno sempre intrigato e soprattutto hanno intrigato non pochi miei interlocutori, ieri come oggi. Ma perché proprio Martina? Per più ragioni, in parte sin qui presentate seppure in ordine sparso, in parte non ancora dette e che verranno esplicitate in future scritture, infine per le forme del suo stesso bel corpo che richiamano proprio il mondo surrealista – penso ad alcune protagoniste dei set fotografici di Man Ray (del resdyo ciò vale anche per l’altra artista oggidiana poc’anzi richiamata, Erica) –, forme di per sé eloquenti e che smentiscono il chiacchericcio di quei personaggetti che vorrebbero tanto sbarazzarsi di Immanuel Kant e del suo stesso filosofare farneticando d’un abbandono della scena artistica da parte della bellezza: il che non è vero e suono piuttosto come un triste fraintendimento e una falsificazione che nasconde altri fini, affatto estranei a quelli artistici. Le forme del corpo di Martina, dunque, daranno sostanza fisica alla metafora e conferiranno indubitabilmente all’omaggio duchampiano quel di più di sensualità rispondete alle reiterate scritture esaltati sensualità amorosa e libertà amorosa e identità libertaria e liberatrice all’amore: un amore declinato al femminile, sintomaticamente, per di più come valore universale e forza risolutiva per il futuro del mondo, da parte dei surrealisti. Non va in ultimo trascurato di dire che poi Martina Terenzi ha scolpito, recentemente, una serie di scacchi e Duchamp era scacchista di vaglio!
Rendere omaggio a Marcel Duchamp, devo avvertire comunque Terenzi, sta anche – diciamolo chiaramente – per un recupero di molte storie tra cui spicca il paradosso Arturo Schwarz. Un paradosso tuttora sottaciuto e stranamente mantenuto in un cono d’ombra dalla storiografia ufficiale o manierata. Un qualcosa che torna a far parlare di teatro e delle sue implicazioni con tutto il carico loro di ombre e luci trascorrenti (altro riferimento alla summentovata teatralizzazione che vedrà Martina protagonista). Gallerista mitico di Milano, Arturo Shwarz se ne è appena uscito di scena, pochi giorni orsono. Stessa generazione o quasi di Giorgio Marconi, oggi Fondazione, in pieno clima post-bellico, dopo il 1958 tutti e due, Schwarz e Marconi – peraltro già attivi a pieno regime sin dal “cessate il fuoco” – si scambiavano gli artisti con Giorgio Upiglio che teneva allora (e così sarà fino a oltre il 2008, quasi fino all’oggi) la più bella stamperia d’arte milanese, una delle grandi stamperie d’arte italiane del XX secolo che hanno avuto e hanno – le poche rimaste ancora in attività – udienza internazionale e dove passavano di fatto tutti i talenti artisti del momento, per dare vita a segni incisi nell’arte d’imperitura memoria. Tutt’attorno si muoveva un microcosmo fecondo e vivace nella fervida Milano sortita a pezzi dalla guerra e tuttavia in grado di risorgere dalle proprie macerie con vitalità stropardinaria. Un interlocutore loro era il nipote di Wildt, l’editore di una collanina di pregio denominata “Edizioni del Pesce d’oro” (non so se per suggestione delle stesse fonti di Marquez), Vanni Scheiwiller. Un po’ più giovane o forse no, incredibilmente attivo, l’altro interlocutore ancora – anch’egli collezionista e promotore d’arte – implicato in più modi dagli artisti, era Gabriele Mazzotta, oggi Editore e Fondazione-collezione d’arte assai bella. In buona sostanza – con pochi altri – il drappello completava un prescritto circolo che vedeva agire sempre gli stessi protagonisti e tutti assieme gli stessi artisti tra residenti e di passaggio. La ricostruzione degli eventi comporterebbe dunque per la Milano tra XX e XXI secolo Max Bill e Veronesi, Piero Manzoni e Dadamaino, la Vigo e quant’altri fino a considerare, ai margini, ma un bel po’ dopo, fenomenologie come il Polimero Arte di Milano-Castiglione Olona, il cui laboratorio era presso la Mazzucchelli di Castiglione, altri protagonisti di rango come Dante Isella o i poeti come Cucchi e Accame, altri comprimari come Gae Aulenti, Max Huber, Lea Vergine e Gillo Dorfles: una fitta trama e un fittissimo ordito in cui dare e avere si annodano senza tregua. Una qualche parte viene recitata pure da Luigi Moretti redivivo, da Tapié… e la pattuglia dei suoi artisti a-figurali o “informali”, tant’altri ancora e ognuno con un portato particolare. Una piccola folla di isolati. È una storia che interessa l’immediato ultimo dopoguerra e i clamori della “ricostruzione” post-bellica fino a considerare e comprendere gli anni Sessanta e i primi Settanta, quando la crisi assume dimensioni rilevanti; una storia raccontata più e più volte, non di rado con le stesse amnesie, le affinità elettive e le affezioni e disaffezioni, gli urti anche aspri, sempre analoghe chiavi di lettura che gettano ombre ipocrite, echi ottusi sulla medesima Milano gonfiandone il profilo con opacità ricorrenti, falsificazioni palesi, ma anche restituzioni interessantissime, aneddoti meravigliosi, acuti brillantissimi, affondi intelligenti e preziosi; una storia fatta di tante storie e di nulla.
In una di queste zone d’ombra resta una buona parte dell’attività pur geniale e pionieristica della Galleria Schwarz, una galleria di respiro sovranazionale. Un’attività galleristica e di promozione di mercato di Arturo Schwarz in verità paradossale, ma incisiva poiché, diremmo oggi, globale. Sempre in competizione con Marconi nei confronti di altre storiche realtà di cui sarà sufficiente dare un unico riferimento, Il Milione. Shwarz si è inserito dunque in uno scenario animatissimo e d’un dinamismo invidiabile che, appunto nell’ultimo dopoguerra, attribuiva a Milano un ruolo rilevante affiancandola a Roma; una Milano artistica che ha saputo promuovere scelte originali, una sequela di sfide magnifiche. Egli ha operato – lo si è testé accennato – nel bene e nel male, ma sempre con eguale slancio e invidiabile passione, distinguendosi da tutti gli altri, sempre in primissima fila o quasi. Naturalmente non si può dirne di più: è presto per giudicare anche solo parzialmente quest’attività della galleria che portava il suo nome. Ma in ogni caso, converrà riprenderne le fila – ora che Arturo Schwarz se ne è andato – giusto per ristabilire un po’ la verità storica, per quello che essa può valere. Sarebbe bello e non solo opportuno, ma anche utilissimo, riprendere le attività delle gallerie più impegnate della seconda metà del XX secolo – il secolo scorso – nella Milano che si va richiamando sommariamente per ritesserne l’intera parabola senza censure o timori: pane al pane, vino al vino. Sono certo dell’esito formidabile (ma ne parlerò a tempo debito con Maria Fratelli, giacché i palcoscenici ideali per questo corrispondono alla costellazione delle “case-museo” milanesi, a partire da Casa Boschi per finire con lo studio di Messina, una costellazione affidatale da tempo e che sta offrendo esiti pregevoli). Certo, questo comporterà una revisione analitica e l’affiorare di molteplici e contrastanti esiti. Tra le molte iniziative audaci promosse da Schwarz – posso anticipare – credo spicchi proprio quella dei replicanti duchampiani. C’è voluta una bella fantasia, una mentalità surrealista – in più d’un senso – per promuovere ciò che egli ha promosso: una seconda e nuova generazione delle mitiche opere degli anni pionieristici delle avanguardie storiche d’inizio secolo. Così come, intendiamoci, c’è voluta una mente mercantilistica particolarmente audace, per realizzare questa seconda famiglia di “ready-made” duchampiani – parliamo solo di Duchamp, prego – e certo ci voleva poi anche una nomea tale da garantire l’approvazione generale e anche questo non difettava a Arturo Schwarz. Il quale, oltre tutto, ha palesato l’intera operazione sin dal principio e se ne è sempre vantato nell’imporla al mercato internazionale. Anche perché le repliche dei “ready-made” duchampiani, approvate dallo stesso Duchamp, volute dallo Schwarz, hanno finito in qualche modo per rilanciare il Surrealismo e soprattutto, hanno generato una moltitudine di nuove proposte d’arte (molte, a firma di replicanti, certo, ma non è forse questo un tipico dato surrealista?). Pur arenandosi su un punto: ma è lecita questa reificazione, o no? E questi replicanti corrispondono davvero agli originali, o no? Consiglierei così i giovani, la giovane Martina Terenzi in primis, di rifletterci su. Sto suggerendo a Martina di riconsiderare in altra e nuova luce proprio l’attività del milanese Schwarz, andando a elaborare un altro e nuovo paradigma indiziario. Le sto proponendo di far seguire a questo altre riflessioni e nuovi approfondimenti commisurati sempre al proprio fare e a sé, a tutta se stessa e al proprio fare di inedito conio, finendo poi per fare in qualche modo tesoro della linfa vitale che, grazie a questa diversa inquadratura prospettica, ne potrà discendere.