Negli ultimi anni, grazie a una posizione maggioritaria più moderata degli studiosi sulla questione dei processi per stregoneria (laddove non si ritiene più che si trattasse di mera isteria collettiva, né di ingenti sopravvivenze pagane), anche a Venegono Superiore si è scoperto che c’erano le streghe. Nel 1999, Anna Marcaccioli Castiglioni ha riesumato alcuni testi dell’archivio dei suoi nobili antenati, scoprendo che nel 1520 il magnifico signore Fioramonte Castiglioni aveva fatto chiamare l’inquisizione perché il figlioletto era morto in culla a causa di un maleficio. Il frate domenicano Gioacchino Beccaria arrivò allora in paese, sentì un po’ di gente del posto e convocò alcune persone, accusate di stregoneria.
Che cos’era successo?
Caterina Fornasari era una giovinetta che conduceva una vita normalissima, senza sapere però che la madre Margherita era una strega. Elisabetta Oleari, quella a capo del gruppo della zona (che contava persone di Venegono Superiore e Inferiore, Castiglione Olona e Vedano Olona) si informò presso di lei per sapere se la figlia fosse o meno portata per diventare una strega a sua volta; la madre disse di sì, dunque entrambe la presero da parte appena uscite dalla chiesa di Santa Maria alla Fontana, dopo la messa natalizia, e le dissero di seguirle per andare in un posto. Lei non aveva motivo di rifiutare, dunque le seguì fino alla sorgente del fontanile, dove incontrarono un uomo di mezz’età vestito di scuro e con un cappello nero che le aspettava sulla strada. Si presentò col nome di Martino, e le due donne la invitarono a prenderlo come amante e compagno; lei pensava che si trattasse di un semplice contadino, e lui di contro le disse che, se lo avesse accettato come amante, avrebbe avuto giorni felici e non le sarebbe mancato nulla.
Le cose andarono avanti per alcuni anni: tutti i giovedì lei e le sue compagne si recavano a casa di Elisabetta, che possedeva un unguento che, spalmato su dei bastoni, permetteva di volare fino alla Silva Rupta (letteralmente il Bosco Rotto, che noi oggi non abbiamo idea di dove fosse); lì c’erano i loro demoni maestri ad aspettarle, uno per ognuna, e ovviamente Caterina cercava Martino e aveva rapporti con lui. Lo spirito la prendeva sia da davanti, come fa il marito con la moglie, sia da dietro, in quella maniera che altrove è detta mestlet; la ragazza non provava molto piacere nell’amplesso in sé, in quanto il membro di Martino, forse per il fatto che non era un essere umano, non era né turgido né caldo, ma adorava giacere con lui perché la baciava, la accarezzava e la coccolava come nessun altro faceva, dimostrandole quanto fosse importante per lui. Era il momento sacro delle streghe, quello in cui smettevano di essere donne comuni, e divenivano tramite tra il mondo materiale e l’Altrove.
Le streghe, quando non stavano alla Silva Rupta, se ne andavano in spirito a compiere vendette su coloro per i quali avevano un qualche risentimento: non colpivano mai direttamente, ma sempre facendo del male a ciò a cui questi tenevano. Ed ecco allora che, infilandosi nelle serrature delle case e delle stalle, toccavano i buoi e li facevano ammalare, cullavano i neonati e li facevano morire, ed erano arrivate persino a toccare la gamba a un pastorello durante il giorno, e questa non era più tornata sana. Il nobile Castiglioni, signore di Venegono, non doveva essere uno stinco di santo se le streghe erano arrivate a uccidere il suo figlioletto nato da poco: il problema era che questi aveva i mezzi per vendicarsi, e infatti non aveva avuto paura di usarli, ospitando l’inquisitore nel suo castello appositamente adibito a tribunale, carcere e luogo di tortura. Era presente a quasi ogni interrogatorio, osservando con sguardo duro e impassibile tutti i convocati, suscitando tanta paura a Caterina che, continuando a implorare perdono, confessò tutto.
Ma il Beccaria non era un inquisitore dalla condanna facile: ad esempio, liberò quasi subito il povero Badono Fornasari, il fratello di Caterina, la cui unica colpa era stata quella di accompagnare la sorella e la madre a fare delle commissioni, senza capire che stavano facendo stregonerie. Un atteggiamento simile lo tenne anche nei confronti delle donne: Margherita Fornasari, a causa dell’età avanzata, morì in carcere, e fu forse per questo che le altre streghe accolsero con gioia la sua proposta di patteggiamento, ovvero che se avessero confessato sarebbe stata loro commutata una pena minore, come una penitenza pubblica o una multa salata.
Dunque tutte accettarono, sennonché il Beccaria venne richiamato alla sede centrale per altre questioni (non che fosse strana come cosa), e sostituito con un nuove inquisitore, Michele D’Aragona, che si ritrovò per le mani tutte le confessioni delle streghe, ma non aveva nessun vincolo da rispettare riguardo al suddetto patto, che non era stato lui a stringere. Indi per cui, quello stesso anno, tutte le donne incarcerate vennero condannate a morte, decapitate e i corpi bruciati tra le fiamme, inclusa ovviamente la povera Caterina.
Non potremo mai sapere se c’era qualcosa di vero in tutto questo, ma alcune cose le possiamo dire, ovvero cosa sappiamo della stregoneria in Italia, e quali erano le sue caratteristiche.
Caratteristiche della stregoneria
A partire dalla seconda metà del XIV secolo fino al XVII, infatti, l’Italia settentrionale fu teatro di molti processi per stregoneria, in particolare nelle zone collinari e montane: i casi più eclatanti, di cui ci sono arrivati gli atti processuali, sono (oltre a quello di Venegono) quelli della Valle d’Aosta, di Rifreddo (Cuneo), di Pisogne (Brescia) e della Val di Fiemme (Trento), ma abbiamo numerose testimonianze anche per quanto riguarda il Biellese, l’Ossola, il Novarese, la Valtellina, il Comasco, il Lecchese, il Pordenonese e il Friuli, oltre che Milano, che detiene il primato della menzione della Signora del Gioco; ci furono ovviamente anche processi nel resto d’Italia, ma in numero nettamente minore rispetto a quelli delle zone nominate. Cercherò qui di schematizzare brevemente le caratteristiche della stregoneria propriamente detta, ovvero quella forma di magia diversa da quella per così dire “cerimoniale” (quella degli incantesimi scritti sui libri), e che prevedeva se non pratiche, almeno celebrazioni comunitarie.
1) Comunità iniziatica. La stregoneria funzionava più o meno secondo caratteristiche semplici e comuni a tutte le zone interessate: una strega più anziana avvicinava quella che le sembrava una novizia promettente (a Venegono questo accadeva fuori da una chiesa, dopo la messa, mentre in Val di Fiemme le streghe andavano direttamente a casa della predestinata, o ancora in Valcamonica la strega avvicinava la novizia incontrandola in maniera “fortuita” per i campi), e le presentava un bel giovane straniero, che le prometteva grandi poteri se avesse deciso di divenire suo amante, o la conduceva direttamente al ritrovo. In genere le streghe si ritrovavano assieme per celebrare i propri riti (fossero essi le processioni milanesi, i sabba della tradizione tarda, e via dicendo), a differenza dei negromanti che potevano avere tutt’al più degli allievi.
2) Spiriti famigliari. La creatura che veniva presentata alla novizia veniva identificata dagli inquisitori con un demone, ed è giusto dire che ogni congrega aveva più demoni che assistevano le streghe. Il comportamento di questi spiriti era lo stesso che in genere viene attribuito ai totem nelle tradizioni sciamaniche: Benvenuta di Navi detta Pincinella, una strega camuna processata nel 1518, “dice di aver medicato molte persone, secondo quello che mi insegnava il demone, il quale stava sempre presso di me, perché mi voleva bene. Chiestole il nome di questo demone, risponde che si chiama Giuliano; e disse che quando faceva quegli incantesimi sui malati, e pronunciava il nome di Dio, della Vergine Maria e di san Giuliano, intendeva il suo demone, e disse che Giuliano è stato 13 anni dentro una sua gamba, e la consigliava su tutto quel che doveva fare.” Riguardo a chi le aveva insegnato le medicine, la Pincinella risponde che alcune le aveva apprese dalle persone, altre gliele aveva rivelate Giuliano nel cuore, altre a parole quando le domandava e gli appariva, a volte di giorno e a volte di notte, per andare al Gioco. Casi simili li possiamo vedere in molti altri processi, e possiamo anche notare che, a differenza dei demoni evocati tramite i libri di magia, ovvero quelli della tradizione demonologica, quelli legati al Buon Gioco avevano nomi umani o soprannomi vezzeggiativi (Martino, Angelino, Giuliano, Costanzo, Giorgio,…), e sempre in forma umana apparivano, e mai animale (se non, in specifici casi, per condurre le streghe al sabba sul loro dorso).
3) Il Buon Gioco e la sua Signora. Le pratiche stregonesche erano semplici: in determinate notti (in genere di giovedì, e non solo in quello delle quattro tempora, specifico di alcune regioni) le streghe si ritrovavano in un luogo prestabilito e isolato, e si davano a eccessi di ogni tipo assieme ai loro demoni; gli atti di profanazione dell’eucarestia, il cannibalismo rituale e la presenza stessa del Diavolo dovrebbero essere aggiunte posteriori, dovute forse all’agire dell’Inquisizione, o forse ancora alla modifica dell’immaginario delle streghe stesse. Per fare un esempio concreto, se nel Trecento a Milano si parlava della Signora del Gioco (Madonna Oriente, che insegnava la magia alle sue adepte), a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento essa diventa una figura minore (ma ancora presente ai sabba), per poi scomparire del tutto nei processi di fine secolo. Come detto, le streghe si recavano ai sabba a volte nella carne, altre nello spirito: il Malleus maleficarum attesta che una strega, quando voleva volare al raduno, si stendeva sul letto e vi andava in spirito, dopo essersi cosparsa parti del corpo con uno strano unguento e volando fuori dalla cappa del camino, a volte cavalcando scope o animali, o trasformandosi in animale essa stessa. Non sappiamo ovviamente i dettagli dei riti che si svolgevano in segreto, se non che avessero a che fare con dell’acqua (elemento che ricorre sin dalle prime testimonianze milanesi), e che avessero ovviamente una componente sessuale (ma non così nei processi trecenteschi); la maggior parte dei partecipanti erano donne, per quanto siano attestati anche stregoni uomini.
4) Magia istintiva. Sugli effetti della magia delle streghe, per la maggior parte le testimonianze parlano del loro agire tramite il tocco, col quale potevano far ammalare o uccidere, senza bisogno di pronunciare incantesimi (ad esempio, la venegonese Tognina del Cilla afferma che “hanno fatto morire un ragazzo di circa dodici anni, che custodiva le bestie, toccandole tutte loro a una tibia; e questo fu a persuasione di Elisabetta, la quale lo ha toccato per prima, e a causa di quel tocco il ragazzo si è sentito male ed è morto”); allo stesso modo potevano entrare nelle case passando da aperture minuscole, probabilmente anche rendendosi invisibili; era loro facoltà scatenare tempeste per devastare i raccolti.
Dalle descrizioni dei rituali e dalla teologia esplicata dalle streghe stesse, quello che viene chiamato Buon Gioco sembra essere una religione più che una pratica magica: se la magia cerimoniale era volta a ottenere qualcosa, la stregoneria (che potremmo a buon diritto definire “sciamanica”) si fondava su figure precise, aveva delle cerimonie fisse, richiedeva un’iniziazione che permetteva l’accesso a un gruppo coeso e che forniva un contatto costante col soprannaturale, non solo durante la pratica magica vera e propria. Si è supposto, a mio avviso lecitamente, che la stregoneria fosse dunque un culto pagano sopravvissuto alle persecuzioni, anche in vista del fatto che (aggiungo io) prima del Trecento e della formazione degli Stati regionali italiani, gli estesi spazi del contado erano amministrati da signori locali che non facevano capo a nessun potere centrale, e gli stessi ecclesiastici, prima dell’istituzione delle pievi, avevano una possibilità di monitoraggio della propria giurisdizione estremamente limitata.
La segnatura
Ma dunque, le streghe erano malvagie? Come si spiegano gli atti di vendetta e i malefici?
La realtà doveva ovviamente essere meno manichea di come veniva raccontata agli inquisitori. La stregoneria dovrebbe essere l’antenata di quella pratica popolare detta “segnatura”, i cui praticanti sono quelli che la gente in genere chiama “guaritori di campagna” o, in dialetto, medegón, categoria che oggi va sempre più scomparendo.
Anche qui ci troviamo davanti a pratiche magiche border-line, che spesso usavano sì una certa conoscenza delle erbe e delle pietre, ma la univano a una magia istintiva (spesso innata) di tipo chiaramente simpatetico: nella sostanza, il guaritore può scoprire lo stato di salute o comunque ciò che riguarda un soggetto analizzando qualcosa che è entrato in contatto con lui, e sempre in questo modo agire magicamente su di esso. Il caso più eclatante è quello di Gostanza da Libbiano, processata a San Miniato al Tedesco nel 1594: quando la nipote di questa viene interrogata, l’inquisitore chiede “se quelli che vengono per ricevere cure portano panni come pantaloni, camicie e altro, disse signor sì, e portano delle cuffie, delle calze e delle camicette rosse e bianche, e altre camicie. Interrogata riguardo a ciò che [sua nonna] fa di quei panni, disse li guarda, li misura e poi li restituisce, raccomandando che prendano chiodi di garofano e noce moscata, e li diano agli ammalati”. E altri begli esempi sono quelli valdostani di Anthonia Dollina di Perloz e di Beatricia de Meyllerio di Champorcher, entrambe processate nel 1420 in quanto praticavano la segnatura con le medesime modalità; tuttavia, nel processo della seconda si scende più nei dettagli della pratica, asserendo che la donna scopre sì i mali delle persone di cui le vengono portati gli abiti, ma lo fa perdendo conoscenza e traendo a seguito di questo evento le formule di guarigione, che spesso comportano preghiere e messe, oltre che rimedi veri e propri. La strega conosce anche molte formule, come ad esempio per proteggere le mandrie dai lupi: tutto questo, e in particolare la trance di chiara natura sciamanica, portano a pensare a una stretta correlazione con la stregoneria, che andrebbe approfondita con studi specifici. Non è insensato pensare che la segnatura (ormai molto cristianizzata e priva di estasi) non sia nient’altro che ciò che oggi resta delle antiche pratiche stregonesche.
Anche in questo caso, dunque, torniamo a Venegono.
Sul limitare della zona detta “Monte Rosso” c’è una stradina sterrata che si inoltra per qualche decina di metri nella vegetazione, fino ad arrivare a un cancello, che si apre su una grande distesa d’erba circondata dal fitto del bosco. In teoria si sarebbe già entro il comune di Vedano Olona, il quale però è molto distante, e vi si arriva solo tramite un secondo sentiero che passa vicino al vecchio lazzaretto. All’interno di questa grande radura sorgono due edifici: in lontananza, un vecchio cascinale, e a metà strada fra questo e il cancello un edificio più piccolo, rustico e imbiancato. Tutta questa proprietà prende il suggestivo nome di Cascina del Trono, e fino a qualche anno fa vi abitava il segnatore Giulio Obbialero, il “Giulio da Venegon” o il “Giulio Medegón”, nativo di Milano e di professione ragioniere.
Dopo la pensione, iniziava a lavorare come segnatore più o meno alle 5 del mattino, se non prima, e già a quell’ora c’era diversa gente ad attendere sulla porta; verso le 8 andava in pausa caffè, e riprendeva per il resto della mattinata, più o meno fino a mezzogiorno, ma spesso a oltranza.
Raccontava spesso di come fosse stata sua nonna (il cui ritratto era posto nello studio, dietro alla scrivania) ad accorgersi della sua virtù, quando da bambino aveva notato come fosse in grado di tranquillizzare gli animali con estrema facilità. Anche lei era ovviamente una segnatrice, e deve essere stata operativa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: era di Milano e, forse in vista del fatto che le città creano collegamenti più facili, c’era gente che veniva anche dalla Calabria per farsi segnare da lei. Il nipote, operando in un paesino di provincia ed essendo schivo di natura (non ha mai rilasciato interviste né si è mai fatto pubblicità), aveva clienti che venivano da più vicino, ma solo per modo di dire: la gente in sala d’attesa proveniva dal Varesotto, ma anche dal Comasco, dal Milanese, dalla Svizzera e probabilmente anche da oltre.
Operava in maniera molto classica, nell’ambito della segnatura, ovvero “segnando” le parti dolenti per vari tipi di afflizione fisica, ma non era specializzato in qualche male particolare. Le sue competenze, va detto, non si limitavano a questo: praticava anche piccoli esorcismi, e insegnava senza problemi preghiere o piccoli rituali (ad esempio usando acqua e sale) per allontanare persone fastidiose o nocive.
Aveva dei bigliettini con il suo simbolo (un triangolo e una croce luminosi che tenevano a bada dei rovi neri), dietro ai quali erano riportate alcune frasi del Vangelo; in genere li piegava fino a formare un triangolo, sui lati del quale tracciava in penna alcuni simboli (il punto, il cerchio, la croce fatta da quattro linee quasi come un cancelletto, e il pentacolo, che si ritrova molto raramente in segnatura), e poi li segnava con un grosso chiodo senza punta, riproduzione di uno di quelli Cristo, benedetto e messo in giro dalla Chiesa in numero ristretto di esemplari. Lo strumento più significativo era però una scatolina piatta e tondeggiante, talmente coperta di vecchio nastro adesivo da risultare marrone scuro, che usava per segnare direttamente la persona: da tradizione poteva contenere un insieme di erbe, medagliette, oggettini consacrati e via dicendo, il tutto però legato a lui personalmente. Si metteva anche a “costruire” piccoli feticci (chiamiamoli così) che i pazienti potevano portarsi a casa: ad esempio una croce formata da due immaginette della Madonna, tenute assieme da graffette, o una corda con vari nodi, o ancora medagliette da strofinare nei momenti di bisogno.
Ovviamente, come da buona tradizione, non chiedeva nulla, ma era la gente a lasciargli un’offerta: alcuni pagavano in denaro, ma tanti portavano salami, bottiglie di vino e cose simili. Tutto questo, in maniera simile a figure di streghe famose come la succitata Gostanza.
Ciò può apparire estremamente lontano dalla narrazione delle streghe, del sabba e del demone famigliare, ma bisogna tenere presente, come detto, che con ogni probabilità queste pratiche non sono nient’altro che le dirette discendenti (ampiamente cristianizzate) di qualcosa di più antico, e che è riuscito, in una maniera o nell’altra, a sopravvivere alle persecuzioni.