Ormai da anni mi occupo (per studio e per passione) della storia milanese, e in particolare delle sue leggende e delle sue tradizioni; e, per l’appunto, in tutti questi anni mi sono ritrovato fra le mani una miriade di testi sull’argomento, che parlano dei misteri della città: ne vengono pubblicati diversi ogni anno, e il loro principale problema è quello che si copiano a vicenda, aggiungendo (se va bene) una o due novità; in casi più gravi, invece, si inventano tutto di sana pianta. In questo modo, purtroppo, un errore qualsiasi (dalla nozione sbagliata per un refuso all’ipotesi palesemente erronea) viene perpetrato nel corso degli anni, in quanto nessuno degli autori in questione si prende la briga di indagare un minimo su ciò di cui scrive. Questa totale noncuranza intrisa di sensazionalismo porta spesso e volentieri i lettori a voli pindarici ancora più grandi, o anche solo a un nozionismo basato su dati storici non veri.
Quello che riporto di seguito è dunque uno degli esempi più eclatanti di questo processo. Esiste infatti, nella tradizione milanese, la storia della scrofa semilanuta, l’animale la cui storia è collegata alla fondazione della città, e che è sulla bocca di tutti coloro che hanno a che fare con le leggende milanesi e le antiche tradizioni dalle quali sono derivate.
Il principe e la scrofa.
La vicenda, molto famosa, si può riassumere in poche righe nella versione in cui viene tramandata oggi (ad esempio in Milano romana di A. Colombo, pp. 18-19): tra il VII e il VI secolo a.C. parte della Pianura Padana venne invasa dai Galli, provenienti da oltre le Alpi e capitanati dal principe Belloveso. Avendo intenzione di fondare una città, questi chiese consiglio agli dèi e ricevette tale responso: avrebbe dovuto gettare le fondamenta laddove avesse scoperto a pascolare una scrofa semilanuta, dalla quale il nuovo insediamento avrebbe preso il nome. Così, dopo lunghe ricerche, l’animale venne trovato, e la città venne appunto chiamata Mediolanum (da in medio lanae).
Desideroso di leggere la versione originale della storia, mi sono informato su quali fossero le fonti della leggenda, scoprendo che la vicenda di Belloveso è narrata da Livio (V 34, 3-9); consultato il testo, sono però rimasto deluso. Ecco cosa riporta l’autore latino in proposito: “Perciò [Ambigato, re dei Biturgi], giunto ormai in età avanzata, volendo alleggerire il regno dal peso della popolazione esuberante, manifestò l’intenzione di mandare i figli della sorella, Belloveso e Segoveso, giovani animosi, in quelle sedi che gli dèi avessero indicato con gli augurii: prendessero con sé quanti uomini volevano, in modo che nessun popolo potesse opporsi alla loro venuta. Allora a Segoveso la sorte assegnò la regione della selva Ercinia [la Foresta Nera], e a Belloveso gli dèi offrirono un cammino ben più gradito, quello verso l’Italia. […] [Le truppe di Belloveso] poi [dopo aver valicato le Alpi] passarono attraverso al territorio dei Taurini e alle Alpi della valle della Dora [forse il Monginevro], e disfatti in battaglia gli Etruschi non lungi dal fiume Ticino, avendo udito che il territorio in cui si erano fermati era detto Insubrio, nome comune agli Insubri, popolazione degli Edui, ritenendo la cosa di buon augurio fondarono ivi una città, che chiamarono Mediolanio.”
Nessuna menzione della scrofa, dunque. Ma allora, da dove viene la leggenda?
In effetti tutti i testi accademici da me consultati riportano un particolare interessante, ovvero che la storia in questione risalirebbe al III-IV secolo d.C., e dunque sarebbe ben posteriore alla fondazione della città o anche solo al suo retaggio celtico (che si dovrebbe far risalire al VI-V a.C.). A tal riguardo, le fonti a noi pervenute sono Claudiano, Sidonio Apollinare e Isidoro di Siviglia (tutti autori per l’appunto tardoantichi). Il primo, in un poemetto per le nozze dell’imperatore Onorio nel 398, dice che Venere giunge in volo “alle mura fondate dai Galli che mostrano [come stemma] lanose pelli di scrofa” (Epith. Hon. 196-197); Sidonio cita semplicemente che Mediolanum trae il suo nome da lanigero (VII 17), e dunque è solo Isidoro a dire davvero qualcosa in merito, poche righe molto aride (ed è interessante notare che in questa versione Belloveso non compaia): “Galli che erano afflitti da lotte intestine e continue controversie, andarono in Italia in cerca di nuovi luoghi ove insediarsi a seguito di profezie, trovando gli insediamenti con l’espulsione degli Etruschi, fondando Milano e altre città. Milano ricevette questo nome perché venne lì rinvenuta una scrofa semilanuta.” (Orig. XV 1, 57) Da notare che la scoperta in loco dell’animale è quasi una coincidenza che contribuisce a dare il nome alla città, ma non vi è alcuna ricerca intenzionale da parte dei Galli.
Questa leggenda era ben ricordata ancora nel Medioevo, soprattutto dopo che, con la costruzione del Broletto Nuovo (l’attuale Palazzo della Ragione) tra il 1228 e il 1233, la tradizione dice che venne rinvenuto in loco un bassorilievo raffigurante un cinghiale. A questo proposito non sembrano esserci studi recenti inerenti tale reperto e la sua origine, ma il Colombo (p. 17) lo definisce “un marmo di pretta fattura medievale”; se ciò corrispondesse al vero, dovremmo pensare a una creazione ad hoc a fini propagandistici, in una Milano che stava ancora risorgendo dalle sue ceneri dopo la vittoria sul Barbarossa.
In ogni caso, Stefanardo da Vimercate, prima del 1297, cita la storia per così dire “pura”, senza alcun riferimento al principe celta (Liber de gestis in civitate Mediolani I, 1), e allo stesso modo fa pochi anni prima Bonvesin Da la Riva, nel 1288 (De magnalibus Mediolani I, 1). Questi in realtà cita una pluralità di storie di fondazione, segno che alle due antiche se ne erano aggiunte altre: “Non è dunque senza ragione che [la città] assume il nome di Mediolanum, che significa ‘a mezza via’ fra i fiumi [Ticino e Adda]; alcuni dicono invece – cosa singolare – che la città prese il nome di Mediolanum da un maiale ‘lanuto nel mezzo’ della schiena che fu trovato sul posto. Anticamente, la città era chiamata anche Alba, perché biancheggiava sopra le altre per il suo splendido candore, dato che meno delle altre era macchiata dai vizi.”
La commistione tra la storia del principe celta e quella della scrofa dovrebbe essere avvenuta in epoca di poco posteriore, su spinta probabilmente più antiquaria: si può notare ad esempio come, nel 1335, Galvano Fiamma narri, nello stesso capitolo (Chronica Mediolani seu Manipulus florum XIII), prima la vicenda di Belloveso praticamente identica a come riportata da Livio, e poco dopo quella della scrofa, ma con una variante: qui infatti il responso divino recita che la fondazione avrebbe dovuto avvenire dove fosse stata trovata una scrofa con la metà posteriore nera (glabra?), e quella anteriore bianca e coperta di lana. Da lì in avanti, comunque, l’unione delle due storie sembra sia diventata così forte da non essere mai più scardinata: ne è un bell’esempio quello di Andrea Alciati, che nei suoi Emblemata del 1531 (v. Mediolanum) parla sia dei Biturgi, che degli Edui, che della scrofa, che del culto di Minerva poi diventato di Tecla (che vedremo a breve).
In ogni caso, possono nascere diverse domande da tutto ciò: ad esempio, già il Fava nel suo Milano magica e fantastica (pp. 120-121) ha giustamente dei dubbi in merito all’etimologia del nome, in quanto “mai i galli avrebbero potuto dare a una loro città un nome latino, derivato da una locuzione latina.” Ma soprattutto, perché la leggenda in questione nasce proprio nella Tarda Antichità, quasi ex abrupto?
Il Colombo (p. 17) già ne intuiva la soluzione: si tratterebbe di un mito di fondazione creato a corte, all’epoca in cui Milano divenne residenza dell’imperatore d’Occidente (dal 286 al 402). Sarebbe infatti una ripresa della fondazione di Alba Longa narrata nell’Eneide di Virgilio (Aen. III 389-393), allorquando l’eroe sogna che il figlio Ascanio troverà in una radura una scrofa bianca (alba) che ha appena dato alla luce trenta porcellini: “Quando, affannoso, giungendo all’onda di un fiume remoto sulla riva troverai immensa sotto alcuni lecci una scrofa sdraiata dopo aver partorito trenta creature, bianca, sul suolo distesa, e bianchi intorno alle poppe i suoi nati, quello sarà il luogo per la città, la fine sicura, quella, dei tuoi travagli.” Allo stesso modo Mediolanum sarebbe stata fondata dopo aver trovato una scrofa dal pelo semilungo (in medio lanae, appunto).
Nessun collegamento diretto con Belloveso, dunque, e di conseguenza nemmeno con la storia della Milano celtica: la scrofa sembra essere un mito squisitamente romano, creato per celebrare la nuova residenza imperiale attraverso un topos virgiliano (e la cui prima testimonianza diretta risale, come abbiamo visto, agli ultimi anni del IV secolo). Hanno un bel dire, dunque, tutti coloro che ancora oggi uniscono le due storie di fondazione, o che fanno della scrofa un qualche spirito totemico della Milano celtica il cui ricordo è stato tramandato fino a oggi. Si tratta di un errore tutto sommato comprensibile, in quanto il cinghiale era in effetti uno degli animali più utilizzati dai Celti nella propria produzione artistica, cosa che ha tratto in inganno e fatto credere che quella della scrofa semilanuta fosse una tradizione insubre. È però giusto dire che, nell’immaginario popolare, l’animale ha avuto più successo del principe celta, quello nessuno può discuterlo.
La dea e il biancospino.
Nella summenzionata citazione di Virgilio, si nota come la scrofa bianca di Alba Longa sia stata trovata sotto dei lecci. Ebbene, stando a quanto riportano tradizioni recenti, anche a Milano la scrofa semilanuta sarebbe stata scoperta nei pressi di una pianta, ovvero il biancospino. Mi sembra a questo punto doveroso fare una specifica su di essa: in quasi ogni libro moderno sui misteri di Milano che riporta la storia “congiunta” di Belloveso e della scrofa, quasi certamente troverete che l’animale stava in una radura con dei biancospini, o tutt’al più troverete la nozione per la quale questa pianta sarebbe sacra alla dea celtica Belisama, patrona di Milano. Ma in realtà di un collegamento fra la divinità e l’arbusto in questione non esiste alcuna traccia concreta. Vediamo dunque la genesi di quest’altro errore.
Anzitutto, chi è Belisama e cosa sappiamo di lei? Il suo nome, di medesima derivazione di quello del suo presunto sposo Belenos, non trova concordi gli studiosi (esso potrebbe significare “la Luminosa” o “la Potente”); più certa è la sua potestà, in quanto associata (alla stessa maniera del compagno) alle acque e in particolare alle fonti curative. I Romani la identificarono con Minerva (si veda ad esempio CIL XIII 8), e forse presiedeva anche alle pratiche manuali, dato che Cesare dice che presso i Galli questa dea “dà i princìpi delle arti e dei mestieri” (B. G. VI 17); proprio per questo si ritiene sia corretto vedere in lei l’aspetto continentale dell’irlandese Brigit e della britannica Briganzia. Quest’ultima veniva inoltre rappresentata come una donna con un elmo a forma di cigno, e se tale elemento fosse appartenuto anche a Belisama, ciò rafforzerebbe la sua associazione con la dea romana, sempre ornata da un cimiero. Forse è anche identificabile con la dea Bricta che presiedeva alle terme di Luxeuil-les-Bains assieme allo sposo Luxovius.
Molte sono le testimonianze del suo culto nella Pianura Padana, tanto da contendere all’italica Mefite la potestà sulle fonti curative: ne è uno splendido esempio il santuario di Breno, in Valcamonica, dove ancora si può ammirare la statua romana di Minerva e tutta la struttura templare con le varie vasche d’acqua sorgiva a scopo terapeutico (che il santuario fosse di origine camuna e la dea non fosse sin da principio Belisama ma la veneta Reitia è questione dibattuta). Il culto doveva essere presente anche a Milano, perché Polibio (II 32), narrando le vicende precedenti la battaglia di Clastidium del 222 a.C., dice che i capi insubri “riunite dunque nello stesso luogo tutte le forze di cui disponevano, tolte dal tempio di Atena le auree insegne dette ‘inamovibili’ e preparata ogni altra cosa come si conveniva, forti di cinquantamila uomini, si schierarono animosamente in atteggiamento minaccioso contro i nemici [romani].” La tradizione rinascimentale vorrebbe identificare il luogo di questo tempio con piazza Duomo e, sebbene fino a qualche anno fa non esistessero palesi conferme di ciò (eccettuate due lapidi reimpiegate per la successiva basilica di Santa Tecla, una alla Triade Capitolina e una specificatamente a Minerva di carattere monumentale), sembra che alcuni scavi del 2014 abbiano portato alla luce una nicchia nella pavimentazione; in ogni caso, a oggi non sembrano ancora esserci pubblicazioni in merito.
Il già citato Fava (forse il più “vecchio” degli attuali testi di misteri milanesi) riprende quasi alla lettera la leggenda “unificata” citata all’inizio, ma la integra dicendo che a consultare gli oracoli furono sette confidenti di Belloveso, e che l’animale venne trovato in una radura disabitata circondata da fitte boscaglie. I vari altri libri pubblicati di seguito sull’argomento si spingono persino oltre: i confidenti sarebbero stati addirittura dei druidi, e le piante dei biancospini. Spesso si trova anche la nozione per la quale in centro a Milano ci sarebbe stata una “via dei Biancospini”, oggi via Andegari, a supportare la veridicità di questa storia. Ma dunque, la nozione primaria della presenza di queste piante, da dove viene?
La suddetta via Andegari sta in effetti in centro, molto vicina al Teatro Alla Scala; e a risolvere l’enigma in questione è, nel XIX secolo, Ottone Brentari nella sua Guida alla toponomastica milanese di fine Ottocento (p. 19), dicendo a riguardo: “Scrive il Venosta: ‘Il nome di questa via deriva dalla voce celtica che in italiano corrisponde al biancospino, del cui arboscello era formata una siepe che serviva di prima cerchia della città celtica di Mayland.’ Altri vorrebbe far derivare tal nome dalla voce dialettale andeghée, che significa gente all’antica, parrucconi. Notisi però che nel secolo XVI questa via si chiamava degli Undegardi; e che una famiglia Undegardi o Hondegardi, d’origine longobardica, viveva ancora a Milano nella prima metà di quel secolo. È probabile dunque che la voce Andegari altro non sia che una corruzione di Hondegardi.”
La spiegazione di queste tre possibili etimologie non dovrebbe essere complessa: la via in questione, dove nel Rinascimento si stabilirono gli Undegardi, fu anche il luogo dove, nell’Ottocento, prese a riunirsi un circolo di persone benestanti e restie alle innovazioni, tanto da adoperare ancora una moda in disuso (come appunto la parrucca, tipica del secolo precedente). La corruzione del nome della famiglia che dava il toponimo alla via, da Undegardi ad Andegari, e quindi al dialettale andeghée, dovrebbe essere all’origine di tutto questo. Ma quindi, il biancospino?
Il testo di Felice Venosta citato sopra, Milano e le sue vie, è del 1867, e non riporta nulla più di quanto cita il Brentari, dunque recuperare questa fantomatica parola celtica risulta difficoltoso; mi azzardo però a dire che, se la spiegazione sugli Undegardi non risultasse già più che convincente, si può aggiungere che la reale conoscenza della lingua celtica insubre, nel XIX secolo, era di poca sostanza: ne è un bell’esempio il Saggio di vocabolario della Gallia Cisalpina e celtico di Pietro Monti del 1856, dove si indagano le radici celtiche dei termini attraverso il dialetto lombardo occidentale, e rifacendosi a vocabolari dell’epoca di lingua gaelica e gallese (e il testo in questione, paradossalmente, non cita il famigerato biancospino alla voce andeghée). Inoltre, è giusto ravvisare che di una qualche sacralità o particolare simbologia di questa pianta nel mondo celtico non abbiamo nozione alcuna, a differenza di altre come la quercia, il vischio e le conifere.
Una situazione, insomma, troppo confusionaria per avere un minimo di attendibilità, e spesso condotta più dal desiderio di trovare ciò che si voleva, che da un sano spirito di ricerca storica (e questo purtroppo vale per molti studi sui Celti, anche posteriori all’Ottocento). Non solo: l’errata ipotesi del Venosta ha indotto molti studiosi dilettanti a ritenere che il medhelan (il santuario celtico) si trovasse appunto nei pressi della Scala, mentre come visto è più probabile che esso (il “tempio di Atena” citato da Polibio) si trovasse in piazza Duomo, dunque adiacente all’area dei ritrovamenti celtici.
La superficialità e la ricerca.
Tirando le somme, con la storia della scrofa semilanuta ci ritroviamo davanti a un falso mito che ha letteralmente travalicato i secoli, che si è ingigantito (prima per spirito antiquario, e poi per cattiva informazione) con altri errori fino a raggiungere il suo stato attuale, quello di una leggenda sulla bocca di tutti, e tramandata con continuità, che però pretende di avere solide basi storiche (e risultare per questo “più vera” di tante altre), quando in realtà nasce solo dall’illecito accorpamento di due miti di fondazione di epoche molto diverse.
E certo, se di per sé e per proprio credo continua a non esserci nulla di male nel ritenere che le due storie possano andare assieme, proporle come le reali tradizioni della Milano celtica (o, ancora peggio, del celtismo tout court, come nel caso del biancospino) continua a essere sbagliato, indica una conoscenza molto superficiale dell’argomento, e può portare a frasi assurde che mi è capitato di sentire nel corso del tempo, come «In quest’area non sono stati trovati reperti celtici, dunque doveva esserci il recinto sacro con gli alberi di biancospino.»
Quando si ritrova, riportata da qualche parte, una presunta leggenda o tradizione che non indica nessuna fonte, o che nomina autori difficilmente reperibili senza citarli, o che semplicemente fa sorgere qualche dubbio, è consigliabile diffidare per principio. Se la questione è di proprio interesse, usare del tempo per fare una ricerca seria non è mai un male, soprattutto quando si possono portare alla luce, come in questo caso, tradizioni dimenticate per davvero.
Dott. Mauro Ghirimoldi